Testo di Cinzia Oliveri
Nella precedente tappa del nostro viaggio alla scoperta del territorio del FLAG Pescando ci siamo fermati a Cabras, "la perla del Sinis", un luogo fulcro per la storia antica di Sardegna ma anche teatro sperimentale di un modello socio – economico in cui le attività legate al settore della pesca e l'enorme potenziale turistico ancora in parte irrealizzato cercano di esprimersi ed affermarsi. Nella delicata convivenza fra la conservazione delle produzioni identitarie tradizionali e lo sforzo innovativo necessario a far coesistere le attività umane in un contesto paesaggistico unico, delicato e prezioso.
Per questo abbiamo scelto di raccontare Cabras due volte, attraversandola prima lungo i luoghi simbolo della sua storia millenaria e ripercorrendola oggi nel suo presente, attraverso paesaggi e ambienti naturali dove domina quell'acqua di mare, di stagno e di laguna in cui da millenni affondano le radici produttive e culturali di questa comunità.
Del resto il Sinis è una terra abitata dall’uomo fin da epoca remotissima proprio per la sua felice posizione. La punta estrema meridionale della penisola si affaccia, da un lato, sul mare aperto della costa Ovest, spesso sferzato dal maestrale e dall'altro sul "Mare Morto", che non è un toponimo esotico importato dalle genti del Vicino Oriente che anticamente si insediarono qui, ma è il nome di un tratto di mare affacciato sul Golfo di Oristano, a ridosso dell'antica Tharros - non a caso sorta qui - riparato dalle correnti e dai venti, dove il mare quasi sempre calmo fa da approdo comodo e sicuro.
Il resto della penisola è come un pizzo prezioso, traforato di lagune e stagni ricchissimi di pesce e molluschi e bordato da una fertile pianura circostante, dal clima mite anche in inverno e inondata di luce tutto l'anno.
Il mare di questa zona è meraviglioso e alcune delle sue spiagge sono famose per il caratteristico arenile fatto di piccoli chicchi di quarzo brillante, nelle sfumature del bianco, verde acqua e rosa. Celeberrima in particolare è Is Arutas, interamente composta di chicchi bianco candido perlato che le hanno valso il nome di "spiaggia dei chicchi di riso" e, spesso, un posto in prima fila nelle varie classifiche internazionali delle spiagge più belle del mondo.
Ma il fenomeno, con concentrazioni più o meno marcate, contraddistingue tutto il litorale compreso tra le spiagge di Maimone e Mari Ermi e questa caratteristica geologica, che riflette in modo abbagliante i raggi del sole, caratterizza anche i fondali antistanti la costa, regalando al mare un colore cristallino spettacolare, che si può apprezzare soprattutto quando il mare è calmo.
Le spiagge più a sud e quelle più a nord sono invece distese dorate di sabbia finissima e questo dipende dalla natura delle correnti marine che trasportano a terra, con concentrazioni variabili, i resti polverizzati delle rocce di arenaria che delimitano la parte meridionale e settentrionale del Sinis o piuttosto il quarzo fossile che si è creato nel corso di centinaia di milioni di anni dall'erosione di un basamento granitico che un tempo sorgeva a mo’ di barriera davanti alle coste del Sinis e di cui oggi resta un lembo di terra emersa: l'Isola di Mal di Ventre.
L'isola, che nel suo punto minimo dista dalla Sardegna circa 4 miglia, dà anche il nome all'Area Marina Protetta Penisola del Sinis - Isola di Mal di Ventre, che comprende tutte le coste del Sinis da Su Siccu, a sud, fino a Portu S'Uedda a nord.
L'Area Marina Protetta Penisola del Sinis Isola di Mal di Ventre.
Il nome "Mal di Ventre" è eredità della forzata italianizzazione dell' antico toponimo sardo "Malu Entu", che significa "vento cattivo" o avverso", perché le correnti termiche e i venti prevalenti di maestrale generano spesso repentini cambiamenti delle condizioni del mare che possono rendere rischiosa la navigazione lungo la rotta per raggiungerla.
Questa caratteristica, unita alla distanza dalla costa Ovest, ha sfavorito l'antropizzazione stabile dell'isola favorendo invece la nascita di un ecosistema prezioso e peculiare, sia marino che terrestre, fra cui si segnalano le tartarughe marine della specie Caretta Caretta e le testuggini di terra.
Dal 1997 questo ecosistema è protetto all'interno dell'Area Marina Protetta Penisola del Sinis – Isola di Mal di Ventre, istituita con decreto del Ministero dell’Ambiente, allo scopo di tutelare e valorizzare l’ambiente marino e costiero all’interno dell’area delimitata, oltre che per amministrare le attività sostenibili in essa consentite, nelle diverse fasce di tutela.
L’Area Marina Protetta è infatti suddivisa in zone sottoposte a diverso regime di tutela ambientale, tenuto conto delle caratteristiche ambientali e della situazione socio-economica ivi presenti: la zona A di riserva integrale; la zona B di riserva generale e la zona C di riserva parziale, la cui delimitazione si può consultare attraverso una mappa GIS interattiva sul sito internet dell'AMP.
La visita dell’isola va evitata in primavera, nel periodo di nidificazione degli uccelli marini mentre in estate la si può raggiungere anche attraverso servizi di transfert che partono da diverse spiagge del Sinis, principalmente da Putzu Idu e Mari Ermi.
Pressochè piatta e quasi del tutto priva di alberi, Mal di Ventre offre nei suoi otto chilometri quadrati uno spettacolo paesaggistico struggente, con la sua luce abbagliante, la colorata vegetazione mediterranea, il quarzo luminoso delle sue spiagge, l'assoluto silenzio, l'assenza totale di infrastrutture e servizi. Sostarvi anche solo poche ore significa tagliare i ponti con il tempo attuale e la consueta geografia, rapiti dalla sensazione di trovarsi in un luogo esotico e non ben definito, in una dimensione quasi onirica che fa smarrire le coordinate spazio – temporali esterne e quelle personali.
Nei giorni più limpidi, da questa zattera di rocce e terra, si può abbracciare in un colpo d'occhio la Costa Ovest da Capo Pecora fino ai pressi di Bosa; praticamente tutto il territorio che stiamo raccontando in questo itinerario di viaggio a tappe.
Le spiagge più belle dell'isola si concentrano soprattutto sul lato orientale: Cala del Pontile, Cala di Nord-Est, Cala del Nuraghe, Cala dei Pastori.
Alcuni di questi nomi rivelano qualcosa della storia del luogo: cala del Nuraghe è così chiamata perchè anche sull'Isola si conservano i resti ancora visibili di un nuraghe bilobato, riutilizzato nel corso dei secoli soprattutto da pastori che un tempo portavano in transumanza le pecore per diversi mesi, attraverso larghe chiatte e che sbarcavano nell'omonima cala ma anche dai pescatori di corallo. Le più antiche tracce antropiche dell'isola, comunque, risalgono al Neolitico, quando l'isola era presumibilmente collegata a Capo Mannu da un istmo di terra emersa ma la frequentazione sistematica e la costruzione di infrastrutture stabili è proseguita con certezza anche in epoca fenicio – punica e poi romana e, presumibilmente, in età medievale.
Oggi resta un solo edificio, di epoca contemporanea ed è un faro di segnalazione in disuso che, svettando tra la macchia, regala un'aura di avamposto estremo a questo lembo di terra perso nel blu, che a guardarlo così viene da pensare che non vi sia mai accaduto niente e che invece conserva, mimetizzate tra i cespugli, tracce nascoste di millenni di storie dimenticate.
Proprio qui, in anni recentissimi, è stata scritta una pittoresca pagina di storia locale, quando alcuni dei vecchi ruderi utilizzati dai pastori furono riadattati a quartier generale da un gruppo di esponenti del movimento indipendentista PARIS, capeggiato dallo scomparso Salvatore Meloni, detto "Doddore", che il 25 agosto del 2008 sbarcò sull'isola insieme a 12 fedelissimi e, appellandosi ai principi di autodeterminazione dei popoli riconosciuti dalla Carta di San Francisco, autoproclamò la Repubblica Indipendente di Malu Entu, nel tentativo di farne il 139° Paese riconosciuto dall'ONU nonché base operativa per la lotta all'indipendenza di tutta la Sardegna.
Si trattò di un'azione più che altro provocatoria, che ebbe anche lunghi strascichi giudiziari ma che diede vita ad una serie di attività dimostrative che per anni hanno avuto eco sui media sardi, quali l'adozione di un nuovo sistema monetario e l'istituzione di un Governo, con tanto di ministri e di bandiera ufficiale. Al movimento arrivarono più di 500 richieste per ottenere la cittadinanza ma appena un anno dopo, su ordinanza del GIP, il presidio fu fatto sgomberare. Seguirono altre azioni dimostrative e un braccio di ferro, finito in cassazione nel 2016 e vinto dagli indipendentisti di Paris, che però nel 2017 voltarono questa pagina di storia locale, dopo la morte del leader fondatore.
Altra curiosità: l'isola è proprietà privata dell'inglese Rex Miller, che mira da sempre a svincolare questo possesso dalle tutele ambientali che ne impediscono lo sfruttamento intensivo per fini turistici ma la presenza dell'Area Marina ha notevolmente contribuito a far da barriera ai tentativi di speculazione su quest'area fragile e preziosa.
L'istituzione, gestita dal comune di Cabras, è certamente un baluardo per la tutela delle risorse ambientali locali ma non ha finalità solo conservative o di studio e ricerca scientifica bensì anche di valorizzazione attiva del territorio, attraverso la promozione dell’educazione ambientale e la diffusione delle conoscenze degli ambienti marini e costieri del Sinis, tramite laboratori, visite guidate e promozione del turismo attivo ambientale.
Che piaccia o meno, il fattore della sostenibilità è una costante trasversale con cui le attività produttive del Sinis devono fare i conti, per poter convivere con la necessità di tutelare un ambiente ed un ecosistema di eccezionale e peculiare pregio. L'onore di vivere immersi in uno scenario così prezioso e bello, del resto, richiede anche l'onere di saper camminare sulla terra leggeri, abilità che presuppone attenzione e sensibilità condivise, da parte dei cittadini, delle istituzioni e anche dei turisti.
Fra le attività atte a valorizzare il territorio segnaliamo alcuni degli itinerari naturalistici proposti dall'Area Marina Protetta che si snodano sull’orlo della scogliera che fa da contorno ad ampi tratti della costa del Sinis: una vastissima terrazza panoramica su cui camminare per scoprire i luoghi più belli ed incontaminati del vasto territorio di Cabras e degli altri comuni del Sinis.
Ne citiamo alcuni come spunto di viaggio da fare in autonomia o con l’assistenza di esperti e guide turistiche ed ambientali presenti nel territorio, rivolgendosi al Centro Visite dell'AMP, nella piazza principale del villaggio di San Giovanni di Sinis o al Centro di Esperienze Casa di Seu, nel Parco Comunale di Seu.
L'itinerario "Cabras – Stagno di Cabras" è adatto a tutti e propone la visita del caratteristico paese di pescatori e dell'omonimo stagno antistante, che con una estensione di circa 20 kmq è uno dei più vasti d’europa. Una tappa rilassante per conoscere le tradizioni legate al mondo della pesca, degustare la prelibata cucina di mare locale e visitare il museo archeologico.
Per esplorare la costa sud della penisola si può prendere spunto da altri due itinerari proposti: "San Giovanni di Sinis – Spiaggia di San Giovanni – Mare Morto" e "Torre del Sevo- Spiaggia della Mezzaluna – Capo San Marco".
Il primo, più semplice e adatto a tutti, è incentrato sulla visita del villaggio di pescatori e della sua spiaggia lunga quattro km, che arriva fino quasi a capo San Marco, al termine del promontorio dominato dalla torre spagnola. Dal villaggio si può poi proseguire lungo la strada che conduce all'area archeologica di Tharros e raggiungere il golfo del Mare Morto, placido anche quando soffia forte il maestrale.
Il secondo percorso parte sempre da San Giovanni di Sinis ma è diretto dalla parte opposta lungo la linea costiera. Ci si addentra nel dedalo di stradine del villaggio, fino alle ultime case, dove si incontra un cartello che indica l’oasi WWF. Entrando nel parco si procede sempre dritti fino a raggiungere un ampio sentiero, lo si segue e svoltando a sinistra attraverso un bosco di pini, si arriva all’ incrocio successivo, dove ci si terrà a destra camminando fino alla bellissima spiaggia. Tornando indietro, e dirigendosi verso la “Torre del Sevo o Mosca“, si troverà anche il centro di informazioni del WWF, da qui non si può fare a meno di osservare con meraviglia la spiaggia della Mezzaluna e gli scogli di capo San Marco.
C'è anche un altro itinerario che parte sempre da San Giovanni di Sinis per poi salire lungo la costa fino al centro della penisola: "Funtana Meiga – Oasi di Seu – Maimoni – Is Arutas", che permette di raggiungere le spiagge più belle e famose del territorio. Dal villaggio di San Giovanni ci si dirige verso nord, passando per il borgo di Funtana Meiga e si attraversa un'area quasi desertica, in cui sorgono alcune oasi. Si raggiunge l'Oasi di Seu, la più importante e da qui sarà facile proseguire prima per la spiaggia di Maimoni e poi quella di Is Arutas.
Emtrambe le spiagge si possono comunque visitare direttamente svoltando, per quella di Maimone, sul bivo che si innesta sulla SP6 che da San Salvatore Conduce a San Giovanni di Sinis, mentre per raggiungere Is Aruttas si prende il bivio che si innesta sulla SP7 che va da San Salvatore verso Putzu Idu.
Per esplorare in modo lento la zona nord del Sinis si propongono altri due itinerari, fermo restando che anche queste località sono comodamente raggiungibili imboccando gli innesti stradali sulla SP7, da cui si diramano numerose strade e sentieri che raggiungono la costa.
L'itinerario "Mari Ermi – Su Tingiosu" è la prosecuzione del percorso precedente: si supera Is Arutas, proseguendo ancora verso nord lungo la costa fino a raggiungere Mari Ermi, una spiaggia bellissima, ancora dominata dal quarzo, da cui in estate partono molte dei servizi di transfert verso l'Isola di Mal di Ventre. Subito più avanti si trova Porto Suedda, dove la spiaggia, costituita da granelli di quarzo più grossolani rispetto a quelli di Is Aruttas, separa gli omonimi stagni retrodunali dal mare. Passato capo Sa Sturaggia, si prosegue lungo la strada SP66 fino alle alte e spettacolari falesie di Su Tingiosu, a picco sul mare, da osservare soprattutto al tramonto, quando si tingono dei riflessi arancio, viola e rosa del sole che scivola sotto l'orizzonte del mare.
Qui termina il territorio del comune di Cabras ed esploreremo nella prossima tappa di viaggio il resto del nord del Sinis, appartenente ai comuni di Riola Sardo e San Vero Milis.
Per chi volesse scoprire ancora "più in profondità" questi ambienti potrà farlo nel vero senso del termine, prenotando nei centri visita dell'AMP uno dei tanti trekking subacquei che offrono esperienze guidate alla scoperta dei più spettacolari "sentieri blu", tra i colori della flora e della fauna marina, antichi relitti e fondali rocciosi che lasciano senza fiato.
Noi però torniamo verso sud, scostandoci di poco dalla linea di costa per addentrarci in un altro paesaggio abbagliante, fatto di acqua e silenzio: è il mondo degli stagni e delle lagune, l'ecosistema delle aree umide che nel territorio di Cabras assume un'importanza fondante, non solo per il paesaggio e l'ecologia del territorio ma, come vedremo, anche per la storia e quindi la cultura cabrarese.
Stagni e lagune
La zona costiera dell’Oristanese ospita il più vasto sistema di zone umide della Sardegna: nel territorio di Cabras le più importanti sono lo stagno di Cabras (chiamato anche stagno di Mar'e Pontis) e la laguna di Mistras.
Nel linguaggio comune spesso i termini stagno e laguna vengono utilizzati come sinonimi ma si tratta di ambienti naturali diversi. La laguna è un bacino costiero separato dal mare da un cordone sabbioso litoraneo, caratterizzato da acqua salmastra e influenzato dai movimenti di marea che garantiscono la circolazione idrica. Uno stagno è, invece, una raccolta di acqua poco profonda, ferma e paludosa in cui gli scambi col mare sono modesti e la circolazione idrica è più lenta.
Tuttavia alcuni stagni storici dopo l’apertura, in tempi relativamente recenti, di canali di collegamento con il mare, si sono evoluti in lagune o viceversa le lagune, a seguito dell’interramento dei canali di collegamento col mare, si sono trasformate in stagni ed è per questo che, anche nell'oristanese, spesso troviamo lo stesso ambiente definito con nomi differenti.
Lo stagno di Cabras, con una superficie di circa 2230 - 2280 ettari (il ciclico aumento e diminuzione del livello idrico ne influenza l'estensione) è considerato l’ambiente palustre più importante della Sardegna e uno dei più grandi d’Europa, per la sua stensione e rilevanza della biodiversità e le sue sponde lambiscono, oltre che il territorio di Cabras, anche quello di Riola e di Nurachi, nella parte settentrionale.
E' riconosciuto come Oasi di protezione faunistica e di cattura; Sito di importanza comunitaria (SIC ITB030036) e Zona di protezione speciale (ZPSITB034008) dalla Convenzione di Ramsar, per la presenza di numerosi uccelli acquatici che qui nidificano o soggiornano in alcuni periodi dell’anno tra cui il Fenicottero Rosa, il Tarabusino, il Pollo Sultano, la Gallinella d’acqua e il Cormorano. Tra le numerose piante presenti nelle sponde dello stagno, invece, la più famosa e rinomata per i pescatori è l’Obione (Atriplex portulacoides L.) o Tziba, usata per la lavorazione della “Merca”, ossia il muggine bollito in acqua salata; uno dei piatti più caratteristici della tradizione culinaria locale. Oltre che di mugilidi, dalle cui uova salate ed essiccate si ricava la celeberrima bottarga, "l'oro di Cabras", lo stagno è ricco anche di anguille, spigole e orate.
Le acque settentrionali ricevono apporto di acqua dolce da un vasto bacino di 440 km quadrati mentre quelle della parte meridionale dello stagno hanno una salinità più elevata, in quanto comunicano col mare tramite il canale scolmatore situato nella zona anticamente chiamata “Sa Ucca ‘e Sa Madrini” (tradotto letteralmente “La Bocca della Scrofa”), nei pressi dell'antico sito neolitico di "Cuccuru is Arrius" di cui abbiamo raccontato nella scorsa puntata e della più importante peschiera di Cabras: quella di Mar'e Pontis.
Il canale scolmatore fu costruito nella metà degli anni '70 del '900 per ristabilire valori di salinità più adatti allo sviluppo della fauna ittica ma anche per prevenire le frequenti esondazioni che spesso allagavano la zona più bassa dell'abitato di Cabras, ancora oggi chiamata dai locali "Veneziedda", ossia, "piccola Venezia".
La prospicente Laguna di Mistras, invece, si estende per circa 450 ettari tra il nord ovest del Golfo di Oristano e lo stagno di Cabras, con il quale sino a qualche secolo fa era in comunicazione. È priva di afflussi di acqua dolce e per questo molto salata, tanto che in alcuni periodi dell’anno la sua salinità supera quella del mare antistante. Anche qui vi si pratica la cattura di specie ittiche, gestita da una cooperativa di pescatori, che viene effettuata sia attraverso un moderno sistema di lavorieri, localizzato nello sbarramento che delimita la laguna, ma anche con tremagli, bertovelli e nasse e le produzioni naturali sono integrate dall’allevamento di giovanili di orate, spigole, saraghi e mugilidi, catturati nella laguna e rilasciati nell’ambiente al sopraggiungere della primavera.
Foto: Nuovo Consorzio Cooperative Pontis
Storie di lagune, di lotte e di potere
La storia dello sfruttamento delle risorse lagunari, a Cabras, è vecchia quanto è vecchia qui la presenza dell'uomo. Una storia che prosegue e si affina nel periodo nuragico, poi fenicio e romano, quando gli “arsellari” delle lagune di Cagliari e dell'oristanese, commercializzavano il loro prodotto in tutta l’isola, come dimostrano i resti di molluschi ritrovati in centri abitati dell’interno, distanti dai luoghi di pesca anche decine di chilometri. Sempre al periodo romano risalgono anche importanti testimonianze artistiche ispirate al mondo della pesca locale, tanto che nei graffiti dell’ipogeo della chiesa di San Salvatore, tra le scene di pesca con tipiche imbarcazioni di laguna, compare lo schizzo di un “fassoni”.
Durante il periodo del Medioevo e in epoca Giudicale la pesca in mare è resa pericolosissima dalle costanti incursioni saracene che perdurano lunghi secoli, le acque interne diventano di conseguenza ancora più preziose e i regnanti danno vita a varie forme di appropriazione e di gestione e, tramite feudatari o concessionari, cominciano a regolamentarne l'accesso e lo sfruttamento.
In alcuni casi, come per gli stagni di Santa Giusta e di Cabras, la proprietà privata è coincisa con la sopravvivenza di forme di potere feudale sino a tempi recenti, un fatto incredibile e a molti ancora sconosciuto, che si è già raccontato anche nella puntata del nostro viaggio a tappe dedicata a Marceddì.
E' difficile, infatti, immaginare che la Regione abbia abolito i diritti esclusivi e perpetui di pesca dei concessionari, che dominavano le acque alla stregua di antichi baroni, solo con la Legge Regionale n.39 del 2 marzo del 1956. In virtù di questa riforma, attualmente la maggior parte degli stagni sono di proprietà della Regione Autonoma della Sardegna (R.A.S.) che li affida in concessione.
Nel nostro caso i concessionari sono oggi i pescatori stessi, riuniti nel "Nuovo Consorzio Pontis"
concessionario unico dello stagno di Cabras, nato nel 1993 dall’unione delle 11 Cooperative di Pescatori che da sempre operano nello Stagno. Ma è un lieto fine costato fatica e lotte che si sono protratte fino agli anni '60 del secolo scorso, quando le leggi in vigore sembravano non poter lasciare dubbi ad interpretazioni già da molto tempo.
E invece no. Ma per capire dobbiamo spostare lo sguardo nelle pieghe della storia.
Fra i tanti avvicendamenti di potere, nel 1652 la Sardegna si trova sotto il regno di Filippo IV di Spagna che ad un certo punto, pressato da grossi debiti, è costretto a fare cassa cedendo al banchiere genovese Girolamo Vivaldi il grande stagno di ‘Mar’e Pontis’, e quello di S. Giusta, in cambio di finanziamenti per la guerra con la Catalogna. Nel 1851 furono gli eredi Vivaldi a rischiare la bancarotta e per pagare i debiti vendettero lo stagno a Salvatore Carta di Oristano. Ma nel 1922 lo stagno fu dichiarato ‘acqua pubblica’ dallo Stato e gli eredi Carta avviarono subito una causa che si protrasse in tribunale per oltre 30 anni: gli eredi difendevano la proprietà fisica del bene mentre lo Stato gli riconosceva solo il diritto esclusivo di pesca.
Il 3 Maggio 1965 il Presidente della Regione Sarda, utilizzando la legge Regionale del 1956 che aboliva tutti i diritti esclusivi di pesca esistenti nelle acque interne e lagunari della Regione, dichiarò estinti i diritti di pesca della famiglia Carta ma le dispute in tribunale continuarono, in uno scenario ancora più complicato. Perchè, nel frattempo erano nate le cooperative di pescatori, che rivendicavano l'autogestione dei diritti di pesca, come previsto dalla legge e in questa situazione di stallo, dopo innumerevoli manifestazioni, l’8 settembre del 1960 i pescatori delle cooperative alzarono l'asticella della protesta, occupando lo stagno.
Ne seguirono periodici e violenti scontri tra le parti, che si protrassero per decine di anni, finchè nel 1982 la Regione Sardegna decise di acquistare il compendio ittico di Cabras dai proprietari, ponendo definitivamente fine alla vertenza e dandolo subito in concessione ai pescatori delle cooperative sorte negli anni delle lotte.
"Essere pescatore" oggi, ma anche essere figli, partner di pescatori o anche solo vivere a Cabras e sentirsi parte della comunità significa essere intirsi della memoria profonda di queste vicende, che legano così intimamente la gente del luogo con i suoi stagni e lagune, che oggi paiono un elemento quasi scontato del paesaggio ma che hanno richiesto grande pazienza e determinazione per diventare davvero un patrimonio dei cabraresi.
Dentro la macrostoria delle vicende di potere c'è poi una storia minore, di luoghi e saperi e anche di sapori, legate al mestiere di pescatore di laguna.
Lo stagno di Mar’e Pontis, era costituito da 3 peschiere: Sa Madrini (completamente scomparsa dopo la costruzione dello scolmatore e recentemente ricostruita), Pischeredda, e la peschiera Pontis, la più grande e importante, una delle più note della Sardegna e di tutto il Mediterraneo, la cui costruzione risale al periodo della dominazione aragonese,e che è particolarmente importante anche nella sua funzione di bene culturale identitario per la presenza di un complesso di costruzioni storiche utilizzate dai lavoratori, che in passato fungevano da supporto alla lavorazione e alla vendita del pescato. Ancora in buono stato, sono oggi tutelate dalla Sovrintendenza ai Beni Culturali e sono visitabili attraverso tour guidati.
Foto: Nuovo Consorzio Cooperative Pontis
La costruzione più grande è “su poaziu” (il palazzo), che ospitava la residenza del padrone durante le sue visite e gli uffici dove si firmavano contratti e avveniva il pagamento per la vendita del pescato.“S’omu eccia” (la casa vecchia) e s’omu noa” (la casa nuova) erano rispettivamente la casa alloggio per pescatori stagionali e la mensa, in cui, separati, pranzavano "zaraccus” (servi) e “pasrargius “ (capi peschiere). Vicino sorge “s’omu ‘e affumai”, una casetta che era destinata all'affumicatura del pesce e vari magazzini, uno dei quali destinato allo stoccaggio della bottarga (sa buttariga in sardo) e del pesce affumicato e altri, fuori dal il perimetro della peschiera, per la conservazione degli steli di giunco e per la pece che serviva a riparare le barche.
Oltre ai fabbricati principali la peschiera ospitava delle piccole capanne di falasco circondate su tre lati dall'acqua e collegate ad una passerella; specie di palafitte chiamate “barraccheddas de castiu”(casotti di osservazione) che potevano ospitare un solo guardiano che, sdraiato, osservava costantemente una certa porzione della peschiera zona.
L'infrastruttura principale della peschiera vera e propria era costituita dalle "cannizzadas", sbarramenti realizzati in canne, lunghi anche oltre 50 metri e forniti di porticine che potevano essere aperte o chiuse per incanalare i pesci negli sbarramenti o per impedire ai pesci il ritorno al mare.
Queste “cannizzadas” , collegate da passerelle in legno, erano costruite secondo un'architettura a labirinto e nella parte centrale, chiamata camera della morte finivano imprigionate grandi quantità di pesce che, senza via d’uscita, veniva radunato da un folto gruppo di pescatori che con l'ausilio di apposite reti circondavano il pesce sollevandole man mano che stringevano il cerchio. A quel punto, altri pescatori, dalla passerella, raccoglievano il pesce con uno strumento chiamato "s’obigu”.
Il lavoro in peschiera era ed è sempre stato un lavoro di squadra ma prima dell'avvento delle cooperative e della modernizzazione del settore seguiva antiche gerarchie che riflettevano sistemi di potere e di status sociale di tipo piramidale.
In cima, naturalmente, c'era il padrone dello stagno ma dentro la peschiera le figure attive più importanti erano "is pasragius", cioè due persone di fiducia che avevano il compito, oltre che di pesare i pesci pescati nello stagno o nella Peschiera, di tenere la contabilità sulla quantita' e il prezzo del pesce venduto. Ai “pasrasgius” seguivano i “tzaraccus” (servi) tra i quali molti godevano di una posizione privilegiata, in particolare quelli che dirigevano importanti funzioni: in cucina e nei ruoli di guardiania e custodia, anche perché il controllo verso i pescatori di frodo nello stagno e dentro la peschiera era massimo. I pescatori abusivi privi di licenza di pesca erano chiamati “is spadoaius”e lavoravano solo di notte, per sfuggire alla stretta sorveglianza dei guardiani.
C'erano poi dei pescatori che non facevano parte in modo permanente del sistema della peschiera ma avevano delle licenze di pesca temporanee, rilasciate dal padrone, per la pesca nello stagno. Questi, chiamati "pescatori vagantivi dello stagno" non utilizzavano le strutture di servizio della peschiera e il loro punto di appoggio e di approdo era rappresentato da “Su Scaiu” un luogo dove pernottavano prima del giorno di pesca e conservavano e pulivano le reti. Inizialmente “Su Scaiu” era ubicato in piazza Stagno ma successivamente venne spostato in Via Tharros, dove ancora oggi vengono utilizzati i locali e l’approdo per le barche.
Un'altra categoria di pescatori, infine, erano “is paramitaius”, che pescavano col palamito a bordo de “is fassois”.
A prescindere dai ruoli e dallo status sociale, il mondo della pesca si compattava davanti alla devozione a San Vincenzo, il santo patrono dei pescatori, festeggiato il 22 di gennaio.
In uno spiazzo antistante la peschiera sorge una chiesa a lui dedicata, costruita probabilmente in epoca spagnola e qui, ogni anno si celebra una festa popolare che in passato assumeva un'importanza fondamentale per le famiglie dei pescatori, soprattutto per le mogli, che potevano recarsi in peschiera solo in occasione della festa e a cui spettava l’organizzazione dei festeggiamenti e il rito, che in qualche modo serviva a compattare a livello sociale le famiglie dei pescatori.
La peschiera di Mar'e Pontis, oggi, è una modernissima struttura che funge anche da ittiturismo e possiede uno stabilimento, nella zona industriale di Cabras che funge da centro direzionale del consorzio e da punto di stoccaggio e commercializzazione dei due prodotti principali dell’azienda: la bottarga e il filetto affumicato.
Termina qui questa tappa del nostro viaggio, in cui abbiamo conosciuto più da vicino il mondo della pesca, la cultura cabrarese e gli ambienti naturali che le meritano la fama di "Perla del Sinis".
Nella prossima puntata continueremo a percorrere il resto della penisola, dove le correnti e il mare si incontrano, dando vita a moti ondosi che fanno di questo lembo di terra un paradiso per surfisti e gli appassionati di sport acquatici.
Arrivederci alla prossima storia!