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31.07.2020

Alla scoperta dei luoghi del FLAG Pescando. #8 - Santa Giusta

Testo di Cinzia Oliveri

 

Superata la vasta pianura di Arborea e l’austera e simbolica idrovora Sassu, proseguendo lungo la SP 49, ci troviamo davanti ad un altro enorme specchio d'acqua rotondo e la strada si dirama in due strade che, a destra e a sinistra, abbracciano completamente lo Stagno di Santa Giusta per poi riunirsi nuovamente nella direttrice che in breve tempo conduce all'abitato di Oristano.

Siamo a Santa Giusta. L'insieme è ordinato e moderno; le stradine parallele alla via principale, che si affacciano sullo stagno, conservano un aspetto tipico e tradizionale che rimanda alla solida tradizione di pesca dello stagno.

Il nostro primo stop lo facciamo per degustare la deliziosa cucina di mare a km zero dell'ittiturismo "Su Fassoi", gestito dalla storica Cooperativa Pescatori Santa Giusta, che incontriamo proprio all'ingresso del paese, immerso nella pineta prospicente lo stagno.

Al termine della strada la stretta striscia di asfalto si apre in un largo in cui, in posizione sopraelevata, svetta in tutta la sua maestà la basilica di Santa Giusta e si viene colti dal desiderio di fermarsi e di visitarla. E anche noi ci fermeremo qui, dedicando un racconto esclusivo ad un luogo che ha tanto da raccontare.

Considerata una delle più pregevoli chiese romaniche dell'Isola e inserita nell'itinerario regionale del Romanico in Sardegna, un tempo fu cattedrale ma non era una "cattedrale nel deserto".

Questo paese, che ad un primo sguardo appare simile a tanti altri del circondario, è custode di un'insospettabile e lunghissima storia che affonda le radici nel periodo neolitico, prosegue in epoca nuragica, splende in età fenicio – punica, si consolida durante gli anni dell'Impero Romano e, cambiando nome più volte, fino a divenire "Santa Giusta" in epoca Giudicale, resiste orgogliosamente durante gli anni del dominio Spagnolo, flagellato da conflitti e incursioni corsare saracene. Sopravvive nei secoli più decadenti del Regno di Sardegna e dell'unità d'Italia, ridotta a periferia del circondario di Oristano, in lotta con le piene del Tirso e le zanzare portatrici della malaria, che infestarono a lungo le aree umide circostanti, prima delle bonifiche, che infine restituirono sicurezza e prosperità a quello che oggi è uno dei principali borghi di lagunari della Sardegna.

A Othoca, oggi Santa Giusta, in età romana convergevano le due principali vie di collegamento della Sardegna antica: una litoranea, che collegava Tibula (Santa Teresa di Gallura) a Sulci (Sant'Antioco), che in parte ricalca l'odierno tracciato della SS126 Sant'Antioco – Marrubiu e una più interna che connetteva Turris Libisonis (Porto Torres) a Karales (Cagliari); quest'ultima corrispondente in buona parte al tracciato principale dell'odierna SS131 "Carlo Felice".

Ancora oggi, il paese è il crocevia delle principali vie di comunicazione che collegano il sud e il nord Ovest dell'Isola e questa storica centralità è facilmente comprensibile se si legge il paesaggio in termini produttivi e commerciali.

A breve distanza, nell'entroterra, si trovano le pendici del Monte Arci, che ospita uno dei giacimenti più ricchi e vasti di ossidiana di tutto il Mediterraneo e del mondo mentre sul versante costiero si aprono numerosi stagni, pescosissimi, che si affacciano sull'ampio Golfo di Oristano, fin dall'antichità sede di porti e approdi per gli scambi commerciali.

L'ossidiana, nel periodo neolitico, era preziosa quanto oggi lo è l'oro e gli studiosi hanno trovato tracce di cave e resti di utensili realizzati con questa pietra vitrea risalenti a circa 7000 anni fa, che i ricercatori hanno confermato essere oggetto di scambi e commerci fiorenti con tutto il Mediterraneo. Nelle epoche più remote, dunque, quest'area dev'essere stata una sorta di Eldorado la cui fama superava i confini del mare.

Il mare oggi si raggiunge superando una vasta area lagunare ma, così come nel corso della storia è mutato più e più volte il nome del luogo e anche l'origine delle genti che qui si sono insediate e stratificate, in un meltin pot di varie culture pan-mediterranee, anche il paesaggio si è trasformato radicalmente nel corso della storia.

Così che, dove oggi c'è l'acqua, spesso un tempo c'era la terraferma e dove ieri c’era l’acqua oggi c’è la terraferma.

 

Lo studio dei mutamenti idrogeologici dell'area e il rinvenimento all'interno dello stagno di tracce di antichi porti fenici, presumibilmente in precedenza nuragici, confermano che in epoca nuragica, fenicio-punica e probabilmente anche romana, Othoca sorgeva sul mare, su un Golfo di Oristano che un tempo era molto più rientrato rispetto al livello attuale e dunque molti altri antichi insediamenti, oggi sulle rive delle lagune circostanti, un tempo furono centri marittimi, come la stessa Neapolis, nei pressi di Marceddì.

Nel corso dei secoli i detriti portati dalle piene del Tirso hanno colmato l'ampia zona della foce, trasformandola lentamente in un'area ricca di specchi d'acqua chiusi e una parte del Golfo si è chiusa anche a causa della presenza degli antichi porti, che favorivano la formazione di cordoni dunari che poi hanno contribuito a restituirci un paesaggio simile a quello attuale.

Simile, non uguale, perché anche questa zona, come tutta l'area della piana di Terralba e Arborea e fino a Cabras, è stata interessata dalle grandi opere di bonifica e sistemazione idraulica realizzate nei primi decenni del '900, che hanno ridotto drasticamente le aree umide preesistenti e mutato il corso dei fiumi, al fine di mettere in sicurezza il territorio dalle periodiche inondazioni devastanti del Tirso e dalla piaga della malaria.

Ad ogni modo, questa è stata a lungo un'area favorevolissima agli insediamenti umani; da sempre luogo di pesca e sede di porti, crocevia di passaggio e di scambi di genti e merci.

Durante il neolitico e fino all'età del bronzo, la zona fu intensamente abitata dalle genti prenuragiche e poi nuragiche, come testimoniano i resti di antiche necropoli che hanno restituito una statuetta raffigurante una Dea Madre della cultura di Bonuighinu, datata al 3300 – 3700 a.C. e di diversi nuraghi, che sorgono tra la laguna e la collina della basilica: il nuraghe del poggio della basilica, il Nuracciana, il Nuragheddu e il nuraghe Sassu.

Poi circa 2700 anni fa, in epoca Fenicia, gli insediamenti sparsi divennero veri e propri centri urbani, con la fondazione di Othoca e delle vicine città di Tharros, a nord e di Neapolis, a Sud.

L'antica città, oggi pressoché sommersa, sorgeva lungo il lato interno dello stagno. Qui vi era anche un porto, che secondo gli studi più recenti, consentiva alle navi di risalire per un tratto il corso del Tirso, consentendo scambi diretti anche con zone più interne e i reperti rinvenuti testimoniano intensi traffici commerciali con il Mediterraneo orientale.

Considerando l'area vasta del Golfo, in cui si concentravano altre importanti città, dobbiamo immaginare questo luogo come una brulicante area metropolitana dell'antichità, dove si incontravano genti, lingue, culture e si scambiavano prodotti e manufatti con terre lontane.

Secondo gli studiosi il nome Othoca è un adattamento latino del semitico "tq", che significa "antica", riferita alla città e starebbe ad indicare questa come la città antica, in opposizione ad una successiva città nuova: Neapolis e il toponimo sarebbe dunque una nuova denominazione data alla città, in epoca cartaginese, all'atto della fondazione di Neapolis.

La storia, intensa e movimentata, prosegue nei secoli, fino a quando la città, con tutta la Sardegna e la Corsica, a partire dal 238 a.C. diventa dominio dell'Impero Romano, che la sottrae al controllo cartaginese divenendo successivamente, centro di cristianità e snodo viario di primaria importanza.

Othoca non fece in tempo a conoscere i romani perché prima del loro arrivo era già parzialmente sommersa dall'acqua dello stagno che si stava formando ma sopravvisse un po' più su, con il nome di Eden, finché poi anch'essa finì sott'acqua e la comunità si radunò attorno al colle su cui più tardi sorse la basilica romanica.

La tradizione narra che qui, nel 130 d.C., sotto l'impero di Adriano, vi furono martirizzate tre donne: Giusta, Giustina ed Enedina, poi canonizzate.

Non esistono fonti scritte dell'epoca ma solo successive e la tradizione orale presenta differenti versioni dei fatti, arricchiti dalla fantasia popolare. Tuttavia sono stati rinvenuti i resti delle tre martiri, oggi custodite nella cripta della basilica dedicata alla santa più venerata e ancora oggi oggetto di una profonda devozione.

In seguito alla caduta dell'Impero, Eden, minacciata dall'innalzamento delle acque fu progressivamente abbandonata e nei periodi bizantino e poi giudicale, l'abitato si spostò nei pressi della Basilica, dove sorge il paese attuale e fu uno dei principali centri del Giudicato di Arborea.

Con la sconfitta degli Arborensi, nel 1410, il villaggio divenne parte del marchesato di Oristano e del Regno di Sardegna Aragonese e, in seguito, dell'impero spagnolo.

È di quest'epoca un aneddoto curioso, che resterebbe solo una cronaca degli annali storici se non fosse che, il suo ricordo, ha influenzato fino ad oggi la cultura popolare locale ed è ricordato come "s'andada de is sordaus grogus", che tradotto letteralmente dal sardo sarebbe "l'andata dei soldati gialli".

È il 21 febbraio del 1637 e i soldati gialli sono gli ugonotti francesi, che vestono una divisa caratterizzata da vistose braghe gialle. La Sardegna fa parte dei possedimenti spagnoli di Filippo IV e la Corona di Spagna è coinvolta in quel lunghissimo conflitto europeo ricordato come "la guerra dei trent'anni".

Quel giorno di carnevale, sul Golfo di Oristano, compare all'improvviso una flotta di 47 galeoni francesi, che decidono di sbarcare ad Oristano senza prima ottenere il consenso delle autorità spagnole.

Gli studiosi si dividono sulle ragioni dello sbarco, motivato dalla necessità di approvvigionamenti o piuttosto con intenzioni belliche ma a noi non interessa questo dettaglio ma solo ciò che questo arrivo causò.

I francesi spararono due colpi di cannone, che colpirono la torre costiera di Torregrande e sorpresero un'intera città completamente assorbita dai festeggiamenti del carnevale e dal rito della sartiglia in corso. Pare che, a causa della sorpresa e soprattutto dei fiumi di vernaccia che scorrevano in abbondanza, non vi fu alcuna capacità di reazione da parte dei sardo – spagnoli e l'armata francese, composta di migliaia di soldati, invase e saccheggiò la peschiera di Cabras e, il giorno seguente, la città di Oristano, che fu abbandonata dalla popolazione in fuga.

Il colonnello sardo Nieddu, capito che non avrebbe potuto fronteggiare un nemico così numeroso senza prima assicurarsi l'arrivo di rinforzi, si diresse a Santa Giusta, dove radunò tutti i soldati e la cavalleria sul colle della Basilica, in attesa di aiuti.

I rinforzi impiegarono qualche giorno ad arrivare ma le cronache raccontano che gli ugonotti, scoperta la bontà della vernaccia e storditi con intenzionalità dai sardi, con i dolci e le libagioni presenti in abbondanza in quel periodo di festa interrotta, si rivelarono meno reattivi e decisionisti del previsto. Quando finalmente giunsero a Santa Giusta, davanti alle truppe sarde, credendo di trovarsi davanti ad un esercito molto più numeroso del loro, abbandonarono la città.

In realtà, a Santa Giusta, il colonnello Nieddu architettò una beffa: quando giunsero i francesi, fece correre avanti e indietro, attorno al colle della basilica, per tutta la sera, i cavalli della scarsa milizia disponibile, sollevando un grandissimo polverone intorno all'area della basilica e creando l'illusione di disporre di molti più uomini di quanti ne avesse.

La vicenda è ricordata come "sa beffa de is sordaus grogus" e non sappiamo se fu davvero questa o qualche retroscena geopolitico a mettere in fuga i francesi ma, comunque, questi furono poi duramente sconfitti in un'imboscata sulla via di Oristano e dovettero abbandonare buona parte del bottino razziato, le armi e i vessilli dell'armata, quattro dei quali sono oggi conservati nella cattedrale di Oristano dove, fino a non molto tempo fa, ogni anno l'episodio veniva ricordato con un ringraziamento solenne per lo scampato pericolo.

Fu una fulgida pagina rimasta impressa nella memoria popolare ma non segnò l'inizio di un corso nuovo bensì l'avvio di un periodo tra i più bui che la cittadina ricordi.

Giunse anche qui la peste, che decimò la popolazione e proseguirono incessanti le razzie dei corsari saraceni e solo alla fine del secolo la città si risollevò, poco prima di passare sotto il Governo Sabaudo e poi quello dell'Italia unificata, in lunghi secoli di vicende umane e di mutamenti di paesaggio che hanno plasmato il volto odierno di questo borgo di mare.

Oggi Santa Giusta è un centro di circa cinquemila abitanti, il Comune della provincia col tasso di crescita demografica più alto, la cui economia si basa soprattutto sulla pesca, l'agricoltura e le attività legate alla presenza del porto, che fa del suo centro urbano un tutt'uno con Oristano.

Negli ultimi anni è stata promossa un'attività di riqualificazione urbana in chiave artistica, attraverso la realizzazione di bassorilievi e altorilievi realizzati in ceramica dagli artisti locali Adriana Baschieri, Pierpaolo Argiolas e Stefano Merlin.

All'ingresso del paese troviamo il bassorilievo “I fenicotteri” , ben visibile percorrendo la strada principale, che raffigura un gruppo di fenicotteri rosa, uccello simbolo dell’avifauna che caratterizza questa zona. All'ingresso della sede del Banco di Sardegna si può invece ammirare un altorilievo raffigurante un giovane guerriero fenicio mentre un'altra opera monumentale, di grande impatto anche per le notevoli dimensioni, è intitolata "il sinodo dei vescovi" e rimanda al tempo in cui la basilica fu cattedrale, fino al 1503.

Ed ecco la basilica, che svetta maestosa su un'altura a dominare il centro del paese. Costruita tra 1135 e 1145, in epoca giudicale, utilizzando ampiamente colonne e materiali provenienti da antichi edifici di Tharros e di Othoca, quasi a racchiudere simbolicamente un condensato di tutta la gloria del passato. Di stile sostanzialmente pisano, servì come modello per la realizzazione di una serie di chiese contemporanee nei territori vicini.

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(foto di Sardegna Turismo)

È considerata una delle basiliche romaniche più importanti e belle della Sardegna e da qui si può partire per un percorso nell'entroterra, alla scoperta di altre pregevoli chiese romaniche del circondario, raggiungendo San Vero Milis, Milis e Bonarcado.

Dal colle della cattedrale lo sguardo spazia verso lo stagno di santa Giusta, il terzo sardo per estensione (800 ettari), risorsa ambientale ed economica, che però conserva sotto il suo specchio il segreto di millenni di storia, inghiottiti dall'acqua e custoditi per sempre.

Qui ogni anno, la prima domenica di Agosto, si svolge una singolare regata, con delle imbarcazioni realizzate con fascioni di fusti e foglie di Juncus, una pianta acquatica tipica di queste zone umide che fin dalla preistoria è stata utilizzata per la costruzione di strane canoe con la coda mozzata, chiamate "is fassonis", il cui design, immutato da millenni, è incredibilmente simile alle imbarcazioni di papiro tipiche dell'antico Egitto e alle imbarcazioni delle popolazioni precolombiane che abitavano nei pressi del lago Titicaca e che ancora oggi vengono costruite dalla popolazione locale.

A dire il vero, è Cabras a rivendicare la paternità de is Fassonis, che, adattissimi alla navigazione nei fondali bassi, erano comunemente utilizzati dai pescatori locali come imbarcazioni da lavoro.

"A Santa Giusta si organizza solo la regata", dicono i cabraresi ma è probabile che questo manufatto così antico fosse un tempo l'imbarcazione comunemente utilizzata in tutte le aree lagunari del golfo di Oristano.

C'è chi, leggendo la somiglianza con le imbarcazioni egiziane, le erge a prova del fatto che le popolazioni nuragiche fossero effettivamente gli Shardana che avevano strettissimi rapporti con i faraoni e che durante i frequenti soggiorni sul Nilo appresero e poi importarono l'arte di costruire is fassonis. Altri azzardano più audacemente alla teoria opposta, secondo cui furono gli egiziani ad apprendere dai Sardi.

Non sapremo mai la verità ma resta il fascino e il mistero di un'orizzonte lontano, che si stende davanti alla lunghissima spiaggia chiara di Santa Giusta e poi a quella di Torregrande di Oristano, che per secoli e secoli vide partire ed arrivare genti da ogni dove, scambiando idee, culture, prodotti, lingue, usi e costumi e che oggi tace silenzioso, nel suo blu raramente agitato dal maestrale.

Da questo crocevia, dove molte cose cominciarono, proseguiremo il nostro percorso lungo la costa, raggiungendo la città regia di Oristano e poi Cabras, la regina delle lagune.

Arrivederci alla prossima tappa!