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Pubblicato in Social
23.06.2020

Alla scoperta dei luoghi del FLAG Pescando. #6 - Into the wild: Marceddì, mito, storia e conflitti, nella cornice di un paesaggio tra natura e umana creatività funzionale

Testo e foto di Cinzia Oliveri

 

Nella tappa precedente abbiamo concluso il nostro itinerario alla scoperta della Costa Verde, il lungo tratto litoraneo appartenente al comune di Arbus che parte da Capo Pecora e termina nel villaggio di Sant'Antonio di Santadi e ci siamo trovati di fronte ad un paesaggio completamente nuovo, dove a dominare è il tratto meridionale del più vasto sistema lagunare dell'Isola, che si estende fino al di là della Penisola del Sinis.

Lasciato l'ultimo borgo di mare dell'arburese, dopo poche centinaia di metri, sulla sinistra, imbocchiamo una stradina che ci porta davanti agli impianti della peschiera di Marceddì, uno dei principali e più caratteristici borghi di mare dell'oristanese, frazione del comune di Terralba, da cui dista 12 km.

Ci fermiamo davanti ad uno stretto e lungo ponte che collega il villaggio agli impianti e ai magazzini di stoccaggio del pesce. In teoria non dovrebbe essere transitabile, poiché l'accesso ufficiale è quello che passa per la pineta retrostante nei territori di Terralba e di Arborea, attraverso un fitto reticolo di strade dritte e perpendicolari che conducono tutte alla SP69.

Di fatto, però, tutti ci passano, osservando il senso alternato, che non è regolamentato da alcun cartello né semaforo ma, al massimo, dal buon senso e dà segnali spontanei con i fari delle auto, consuetudine che regala sempre un brivido di adrenalina e che in fondo è un biglietto da visita decisamente adatto al mondo tutto particolare in cui stiamo per entrare.

Marceddì è una striscia di piccole casette colorate disposte in file parallele lungo il bordo della laguna. È vicoli in terra battuta intrisa di sale; è odore acre di alghe, reti, attrezzi da pesca e legno di barche.

È un luogo dei cui difetti ti innamori a prima vista, perché sono essi a regalare quell'atmosfera stranissima che ti fa sentire in qualche "dove" indefinito che sembra un po' Sudamerica e in un "quando" di cui non puoi avere certezza. Anche qui, come già abbiamo sperimentato nelle tappe precedenti, saltano tutti i riferimenti geografici e temporali ed è forse questa la nota caratteristica comune che risuona in tutto il tratto della costa ovest in cui si snoda il nostro itinerario.

Le casette dei pescatori sono nate intorno agli anni '60 del secolo scorso, tirate su alla bell'e meglio durante la notte, in pochi giorni, con atti di innocente illegalità, inconsapevole poesia e disperata resistenza. Ma quella odierna è solo la veste più recente di una comunità di pescatori che è sempre esistita, fin dai tempi più remoti, quando in epoca nuragica si chiamava Orrì e che in periodo fenicio - punico e poi romano e alto medievale fu un'appendice della grande e importantissima città di Neapolis, oggi sepolta, poco distante, nell'attesa che scavi sistematici la riportino alla luce.

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Se conosci la storia di questo borgo e della sua gente smetti subito di osservare con l'occhio di un raffinato urbanista i fili della corrente issati come vuoti stenditoi sulle case, i blocchetti in cemento a vista, le coperture spesso ancora in eternit e le stradine polverose e ti incanti ad ammirarle, piuttosto, perché raccontano storie incredibili di lotte, fatica, soprusi e tenacia.

Oggi molte di queste casette sono ben curate e dipinte a tinte allegre e vivacissime mentre, al di là del ponte, una triste palazzina a due piani, sventrata ed isolata, osserva muta il duro lavoro di pescatori liberi che un tempo guardavano a quelle mura abbandonate con timore e dolore.

Era la palazzina della famiglia Castoldi, la stessa che a cavallo tra il XIX e il XX secolo scrisse una pagina fondamentale delle vicende legate alla Miniera di Montevecchio e che nel 1906 acquisì dalla famiglia nobile dei Ripoll il beneficio dello sfruttamento esclusivo dei diritti di pesca nella laguna e negli stagni circostanti, che per lunghi secoli furono sottratti all'uso demaniale e gestiti in modo arbitrario come una proprietà privata.

È una lunga storia, impossibile da raccontare in breve ma qualche accenno fondamentale va fatto, perché è solo attraverso le storie del passato che si possono davvero vedere ed amare i luoghi del presente.

In epoca feudale i sovrani del tempo cedettero ad alcune famiglie nobiliari l'esclusività dei diritti di pesca nelle acque interne e lagunari dell'Isola. Poi nel 1775, con atto formale, il Re di Sardegna trasferì questo beneficio a Don Pietro Ripoll, Marchese di Neoneli e Conte di Tuili, per l'area lagunare di Marceddì e di altre lagune dell'oristanese, dell'iglesiente e del cagliaritano. Nel 1906 i Ripoll vendettero il beneficio alla famiglia Castoldi, che lo esercitò attraverso un sub concessionario fino agli anni '60 del '900.

Al di là degli avvicendamenti dei beneficiari, che riguardano gli annali della storia, per i pescatori poco cambiò, nei secoli.

Ridotti alla stregua di servi della gleba, sebbene schiavi delle acque e non della terra, non potevano contare sul rilascio di licenze durature e dovevano ottenere, giornalmente, un permesso di pesca, che veniva concesso solo dopo aver depositato nel magazzino centrale un quarto di quanto pescato in mare e il cento per cento del pescato delle acque interne, che veniva pagato ad un prezzo arbitrario e misero. Chi non sottostava a queste regole non otteneva il rinnovo del permesso di pesca, era soggetto a sanzioni pecuniarie e penali e al sequestro del pescato e delle stesse attrezzature per la pesca e le perquisizioni potevano avvenire in qualunque momento anche all'interno delle abitazioni private.

Le abitazioni, poi, erano capanne realizzate con canne e intelaiature di giunco, simili ai "falaschi", le costruzioni tradizionali dell'area del Sinis, che, stagionalmente, dovevano essere smantellate per poi essere ricostruite lontano dalla linea costiera.

Sebbene Marceddì esistesse da sempre, per lungo tempo non ebbe più il diritto di esistere.

D'altra parte, allo sfruttamento umano si sommava lo sfruttamento ambientale. I concessionari puntavano al massimo profitto a fronte dei minori investimenti possibili e non si curavano di salvaguardare l'equilibrio ecologico della fauna ittica né provvedevano a dragare periodicamente i fondali o a costruire le infrastrutture essenziali.

Ed era proprio la necessità di sopravvivenza dei pescatori ad alimentare lo sfruttamento insostenibile, l'unico possibile per assicurare il livello minimo di sussistenza, tanto che negli anni del boom dell'industria mineraria si assistette ad un abbandono di massa del settore della pesca, con i pescatori che preferirono diventare minatori, uno dei lavori più duri che esistano, piuttosto che contendersi il poco pesce rimasto, che ormai non garantiva nemmeno un reddito minimo.

Abolita la feudalità, ci fu solo qualche isolato decreto regio e poi ministeriale che però, di fatto, non migliorò sostanzialmente la situazione.

Nel 1930 la Regione Sardegna dichiarò la natura pubblica delle acque di Marceddì ma fino al secondo dopoguerra restarono intatti i principali problemi, anche perché i Castoldi continuarono a gestire il compendio fino al 1960, quando la Regione abolì anche questo diritto residuo e, previo sostanzioso indennizzo ai beneficiari, inaugurò una nuova pagina di storia, anche se per anni la gestione pubblica fu oggetto di un braccio di ferro tra il livello regionale e quello ministeriale, diatriba che non consentì una vera svolta per migliorare le condizioni di lavoro dei pescatori e della laguna.

Negli anni cinquanta cominciarono le prime agitazioni contro lo sfruttamento baronale, prima con ripetuti atti di ribellione personale e poi, nel 1957, con la prima grande agitazione collettiva, fortemente sostenuta dall'amministrazione comunale di Terralba e dall'opinione pubblica del territorio.

Furono queste agitazioni a costringere la Regione ad abolire formalmente il regime baronale, che incredibilmente si protrasse fino all'epoca contemporanea.

Nel frattempo, le casette abusive si imposero, notte dopo notte, quasi a voler affermare in modo plastico le lente conquiste e ad assicurare alla borgata di pescatori il diritto di esistere.

Dieci anni dopo lo sciopero generale, nel 1967, la gestione pubblica della pesca nella laguna di Marceddì passò al Consorzio Nazionale della Pesca, che regolamentava anche le attività dei pescatori, nel frattempo costituitisi in cooperative private, forti dell'esperienza delle lotte collettive. Il ruolo del Consorzio pubblico, però, risultò fallimentare fin da subito, lasciando lettera morta la messa in sicurezza delle infrastrutture e non operando alcun intervento di ammodernamento e miglioramento produttivo, tanto che alla fine degli anni '60 la fauna ittica superstite resisteva, ridotta ai minimi termini, su fondali bassissimi, perché mai dragati, ormai quasi inadatti alla pesca.

Marceddì esiste perché esistono i pescatori e i pescatori esistono se l'ambiente circostante consente la pesca. E Marceddì, così, era destinata a morire.

Nel 1973 la comunità si solleva, ancora una volta, con la forza che solo l'istinto alla sopravvivenza può generare. Le cooperative dei pescatori occupano gli stagni, creano un proprio consorzio privato e ingaggiano una lotta estrema per l'autodeterminazione, sostenuti con forza dall'opinione pubblica e dalle istituzioni locali, pagando il prezzo di denunce e vertenze in tribunale. Finalmente, il 14 settembre di quell'anno la Regione cede e, dietro un compenso di 90 milioni di lire, autorizza il consorzio privato a gestire autonomamente la pesca nel compendio.

Il resto è storia di oggi. Chiuse le miniere, molti pescatori hanno scelto di tornare al mestiere originario e anche i più giovani si stanno riavvicinando a questo settore, con una coscienza e consapevolezza diverse, sempre più attente all'equilibrio dell'ecosistema, alla sostenibilità e ai compromessi che comporta la necessità di svolgere il mestiere di pescatore in un'area di estremo pregio ambientale, che nel frattempo è stata riconosciuta da numerosi sistemi di tutela ambientale, ricchissima di cefali, orate, spigole, vongole veraci e arselle ma anche di pregiate specie botaniche e habitat in cui nidificano numerosi uccelli tra cui varie specie di aironi, il fenicottero rosa,  il falco di palude e il falco pellegrino,  il cavaliere d’Italia, l'avocetta, l'occhione,  la pernice di mare, il gabbiano roseo, il martin pescatore e numerosissime altre.

L'intera area lagunare è composta da due ambienti umidi principali: quello della laguna di "Corru s'Ittiri", parallela al mare e dagli stagni di Marceddì e di San Giovanni, perpendicolari alla linea costiera, che già dagli anni '70 è inserita nella lista delle zone umide di importanza internazionale predisposta sulla base della convenzione di Ramsar, e viene considerata sito di interesse comunitario (SIC ITB030032) e zona di protezione speciale (ZPS ITB034004).

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E ora godiamoci una bella passeggiata per il borgo, magari fino all'attesa del tramonto, che qui, in ogni stagione, regala colori spettacolari che tingono il cielo di tutte le sfumature del giallo, dell'arancione, del rosa e del lillà. Colori che si riflettono sui pescherecci, nelle facciate delle case e rimbalzano nelle acque del mare e della laguna, avvolgendo tutto di una luce magica che esalta i cromatismi infiniti delle piante acquatiche, che virano dal verde al rosso acceso al bruno caldo.

Con il caldo sarà d'obbligo sedersi ai tavolini esterni dei due bar ristorante interni al borgo, per sorseggiare un caffè o una birra ghiacciata mentre in ogni stagione è possibile gustare il pescato locale, pregiatissimo, cucinato nei rinomati ristoranti storici che richiamano buongustai amanti della cucina di mare da tutta la costa e dalle zone interne: il ristorante "Da Lucio", davanti alla laguna, il ristorante Miramare, ai bordi della pineta, davanti allo stagno interno, il ristorante "La vecchia scuola", immerso nella pineta e circondato da un bellissimo giardino e l'ittiturismo della cooperativa "Pescatori San Domenico", lungo la panoramica che conduce alle aree attrezzate per l'osservazione dell'avifauna.

Il centro storico del borgo è decentrato, racchiuso nello spiazzo antistante il ponte carrabile ed è dominato da un edificio semplice che, nell'ingresso dal lato del ponte, conduce al "Museo del Mare" mentre nella porzione che volge verso il borgo ospita la chiesa dedicata alla Madonna di Bonaria, patrona dei pescatori e dei marinai sardi.

La chiesetta fu costruita tra il 1927 e il 1930, grazie al contributo di tutta la popolazione.

Nella primavera del 1924 un gruppo di persone si era riunita nella casa del pescatore Salvatore Serra, la cui moglie Filomena Zedda, in collaborazione con Gerolama Ariu, promuoveva la celebrazione annuale di una messa in onore della Madonna di Bonaria, per organizzare una festa annuale in onore della santa, patrona dei naviganti e dei pescatori sardi. Il gruppo incontrò inizialmente delle resistenze da parte del parroco dell'epoca, che non riteneva possibile poter conservare il SS. Sacramento nel luogo indicato dal gruppo, cioè la caserma della guardia di finanza. Intervenne il signor Battista Muntoni che si offrì di donare gratuitamente un terreno che possedeva per la costruzione della chiesa.

In quello stesso anno venne acquistata la statua della Madonna, costruita in carta pesta da maestri leccesi. Fu consacrata il 17 agosto 1930 e da allora ogni anno, a partire dal venerdì successivo alla settimana di ferragosto, viene organizzata una coloratissima festa religiosa e popolare che dura una settimana, caratterizzata da una processione tra la laguna e il mare, dove i pescherecci, le barche da pesca, le barche da turismo e ultimamente anche kayak e ogni altro tipo di imbarcazione possibile trasportano su un peschereccio addobbato la statua mariana, insieme al parroco officiante, lungo un percorso ad anello.

Negli ultimi decenni una corona di fiori benedetta viene gettata in mare dall'alto di un elicottero proveniente dall'antistante poligono militare di Capo Frasca, per propiziare l'annata di pesca e benedire la comunità.

Anche la convivenza con il poligono, che occupa una porzione di superficie marina interdetta alla pesca e alla navigazione, è un'altra storia difficile con cui la comunità di pescatori si è dovuta misurare a partire dagli anni '60 e la collaborazione che tradizionalmente si è radicata per lo svolgimento di questo rito sancisce un momento di pace condivisa che al visitatore occasionale potrà apparire bizzarro e singolare, ma in fondo, cosa c'è di ordinario a Marceddì?

Il simulacro, conservato nella parrocchiale di San Pietro, a Terralba, giunge a Marceddì scortato da una processione a piedi, seguita tradizionalmente da gruppi di motociclisti che accompagnano rumorosamente la processione fino alla chiesa del borgo.

In quei giorni il villaggio si riempie di turisti, di bancarelle e di stand, chiamati "stazzus", in cui viene arrostito il pesce locale e dove si cucinano prelibati piatti con i mitili della laguna, in una cornice sacra e profana in cui si avvicendano riti religiosi, spettacoli musicali e performance artistiche di ogni genere. Un appuntamento che ormai è diventato una solidissima ed attesa tradizione da tutto il circondario.

Il Museo del Mare sorge nella parte retrostante la chiesa, ospitato in un edificio storico recuperato che fu costruito, in anni di inesistente sensibilità verso le tematiche archeologiche, su fondamenta di epoca nuragica, oggi ben visibili e protette all'interno del museo stesso.

Gli studiosi presumono che i resti siano collegati ad un porto antichissimo risalente al Neolitico e gli scavi condotti fanno risalire la presenza umana nel luogo a circa 8000 anni fa.

Poco distante, infatti, tra la Torre Vecchia e la pineta, sorge anche un tempio a pozzo nuragico, dedicato al culto delle acque, il pozzo sacro di di Orrì.

A breve distanza, guardando verso la linea interna delle montagne, sorge la città punico-romana di Neapolis, mentre in direzione opposta, sulla costa, svetta la torre di avvistamento di epoca spagnola, conosciuta come la "Torre Vecchia di Marceddì", riutilizzata come fortino difensivo durante la seconda guerra mondiale e affiancata a breve distanza da un fortino costruito tra il 1942 e il 1943 nel timore di uno sbarco anglo - americano sulla costa ovest dell'Isola. Il fortino è diventato parte caratterizzante il paesaggio della costa dell'oristanese, in cui questa tipologia di costruzioni, che poi mai fu utilizzata, è diffusa sulla maggior parte delle spiagge fino ad Oristano.

Guardando l'orizzonte si scorge lo skyline della penisola del Sinis, su cui sorgeva l'antica città di Tharros, progressivamente abbandonata, come la vicina Neapolis, nei secoli in cui la zona fu teatro di incessanti e ferocissime incursioni saracene, di cui le torri di avvistamento, sparse un po' ovunque, ci restituiscono la memoria.

La Torre vecchia, risalente al XVII e per anni abbandonata, è oggi oggetto di un progetto di restauro e valorizzazione finanziato dalla Fondazione Medsea e dal Comune di Terralba. Al piano terra saranno ospitati un archivio e una mostra sulla storia della torre, mentre al primo piano verrà allestito l'osservatorio del paesaggio delle Zone Umide progettato dallo studio d'architettura Casciu-Rango la terrazza che in passato ospitava i bracieri utili alla segnalazione di pericolo diventerà un punto di osservazione dell'avifauna e delle "terre d'acqua" circostanti.

L'Associazione 3DNA, fondata da giovani professionisti e ricercatori di Terralba, collaborerà alla valorizzazione della Torre attraverso azioni partecipative e di formazione, e con azioni di comunicazione a livello locale.

L'associazione, ha inoltre allestito il Museo del Mare, raccogliendo testimonianze orali, fotografiche e reperti che possano tramandare alle generazioni future le origini e la storia di questo micromondo chiamato Marceddì e di tutte le vesti che ha assunto nei secoli, quando si chiamava Orrì e commerciava con le sponde più lontane del Mediterraneo africano ed asiatico, quando è diventato terra di sfruttamento e di lotte di pescatori, quando ha rischiato di scomparire e quando, infine, si è rialzato ed è risorto, diventando uno dei borghi di pescatori più suggestivi della Sardegna.

Tutti gli allestimenti del Museo sono stati realizzati grazie al ricavo economico generato dalla vendita delle bottiglie di plastica raccolte nella borgata, a costo zero e la sensibilizzazione ambientale, oltre alla promozione di un turismo sostenibile, sono le missioni principali dell'associazione che ha creato il museo e che propone ai visitatori workshop fotografici nell'Area Naturale Protetta, laboratori per bambini e visite guidate.

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Terminiamo la passeggiata andando a vedere da vicino la torre vecchia e il fortino, attraversando un grazioso ponte ad arco e camminando comodamente sulle passerelle in legno che ci conducono tra l'acqua e la vegetazione, verso i punti di osservazione faunistica.

Da qui in poi ci si addentra sempre più nel fitto della pineta, che fu piantata molti decenni fa dalla mano dell'uomo, durante l'epopea delle bonifiche, che eradicarono la malaria da questa zona ma ridussero considerevolmente la superficie degli stagni. È l'epopea di Arborea, su cui poi si innestano tante altre storie che hanno riscritto il paesaggio ambientale, produttivo e perfino antropologico della zona ma questa è un'altra avvincente storia che racconteremo nella prossima tappa del nostro viaggio!