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08.06.2020

Alla scoperta dei luoghi del FLAG Pescando. #5 - Into the wild: Portu Maga, Tunaria e Sant’Antonio di Santadi

Testo di Cinzia Oliveri

Foto di Ettore Cavalli

 

Superati i guadi e percorsi gli ultimi boschi di Piscinas, salutiamo le dune dall'alto dell'ultimo tratto in salita e ritroviamo l'asfalto.

Siamo sulla SP4, la litoranea che da qui in poi percorre tutta la costa di Arbus fino a Sant'Antonio di Santadi, a pochi metri dal mare nel primo tratto e allontanandosi un po', a cavallo di colline sempreverdi, nel resto del tragitto. 

Questa litoranea è meta abituale di passeggiate in auto, in moto o in bicicletta da parte degli abitanti della zona, anche in inverno, quando il tempo è troppo freddo per andare sulla spiaggia.

È un po' la "route 66" locale: stretta, selvaggia e deserta, che regala emozioni anche quando diventa essa stessa meta di viaggio e non una semplice via per raggiungere un luogo particolare. Quando hai bisogno di andare, andare e basta, in nessun dove, senza pensieri.

In questa prima parte, manteniamo costante la visuale della sagoma misteriosa del Monte Arcuentu che sovrasta l'orizzonte interno e il mare, alla nostra sinistra. Notiamo il lento e progressivo mutare del paesaggio, il quale offre ancora per un po' lo spettacolo di un basso sistema dunale lasciando poi spazio, pian piano, a piccole cale delimitate da costoni di arenaria fossile.

Una di queste pareti sedimentarie, a pochi metri dalla strada, nei pressi di una località chiamata "Su Pistoccu" (che in sardo è il nome di un caratteristico pane secco, di lunga conservazione) ha restituito nel corso degli anni uno straordinario tesoro di inestimabile valore storico: gli scheletri, perfettamente conservati, di due uomini e di una donna, che gli scienziati hanno datato, usando il metodo del carbonio-14, al periodo di transizione tra il Mesolitico e il Neolitico, ovvero tra 10.000 e 8.200 anni fa.

Beniamino, Amsicora e Amanda, così li hanno ribattezzati gli archeologi, sono gli scheletri completi dei più antichi abitanti della Sardegna mai rinvenuti fino ad oggi e, insieme a numerose rovine di insediamenti nascoste tra la macchia mediterranea, testimoniano l'intensa frequentazione umana di questi luoghi fin dai tempi più remoti.

Beniamino fu trovato nel 1985, per puro caso, da due ragazzi che, giocando sulla spiaggia, scoprirono lo scheletro in una parete di arenaria franata dopo un temporale. Era interamente ricoperto di ocra rossa, accompagnato da una grande conchiglia di Trion, successivamente restaurata presso il laboratorio della Soprintendenza di Li Punti (SS), e da frammenti di ossa di Prolagus Sardus, un piccolo mammifero ormai estinto.

In un'epoca in cui l'attenzione verso i beni culturali era decisamente minore rispetto ad oggi, l'onere di recuperare e poi custodire per molti anni i resti fu dato ad un'importante associazione culturale di Guspini, il "Gruppo Archeologico Neapolis", che per quanto particolarmente attenta ed attiva, da sempre, nel campo della tutela e valorizzazione dei beni archeologici del territorio, non disponeva certo dei mezzi necessari a garantirne un'adeguata conservazione. Il prelievo “poco scientifico” e la conservazione successiva di Beniamino non consentirono allo scheletro di preservare il collagene che permette di datarlo con certezza al C14.

Finalmente, nel 2002, la Soprintendenza ai Beni culturali di Cagliari prese in custodia Beniamino e diede incarico a due scienziate, Rita Melis e Margherita Mussi, di studiare il sito, che fu poi interessato da altri scavi, ed indagini, restituendo negli anni successivi altri due scheletri: quelli di Amsicora e di Amanda, risalenti a circa 8500 anni fa, un'epoca che in Sardegna precede lo sviluppo delle prime comunità dell'Età della pietra.

Attualmente gli studi proseguono, mentre Beniamino, Amanda ed Amsicora, i "Babbai e Mammai" dell'Isola, sono custoditi e studiati presso il centro di ricerca della Cittadella di Monserrato.

Proseguiamo lungo la strada, con quel senso di rispetto e mistero che si avverte addentrandosi in luoghi dove i nostri occhi non possono più scorgere le tracce del passato ma dove gli occhi del cuore sanno ancora fantasticare sulle antiche storie di cui avvertiamo l'eco misterioso.

Dopo pochi km giungiamo a Portu Maga.

Abbarbicato su una collina di fronte al mare notiamo subito, aggrappato alla terra, in verticale, il primo insediamento umano moderno che incontriamo da quando abbiamo cominciato il nostro viaggio e non è un bello spettacolo.

È un complesso residenziale costruito verso la fine dei rampanti anni ’80, quando lo sviluppo turistico puntava alla quantità piuttosto che alla qualità e il desiderio dei grandi gruppi imprenditoriali di portare il segno della modernità negli angoli più selvaggi delle coste sarde era un miraggio costante. Divenuto villaggio della Valtour per un certo periodo, è poi rimasto definitivamente una cattedrale nel deserto, per poi essere definitivamente chiuso ed abbandonato a sé stesso. Oggi una nuova concezione di turismo sostenibile, attenta all'ambiente, alla valorizzazione dei prodotti e dei saperi locali e alla destagionalizzazione, si è affermata, con forza, presso le istituzioni locali, che lavorano per una riconversione smart degli spazi.

Restano intatti il fascino della bella spiaggia, composta di grossi granelli gialli e traslucidi che conferiscono all'acqua del mare delle trasparenti sfumature verdi, e la bontà del pescato locale, che si può gustare nei due ristoranti presenti: il bar pizzeria e ristorante "Portu Maga", situato nella piazzetta dove in estate si concentrano i servizi principali e lo storico ristorante sulla spiaggia, "Il Corsaro Nero", aperto tutto l'anno.

Da Portu Maga si possono raggiungere anche le pendici del Monte Arcuentu e lo spettacolare villaggio minerario di Montevecchio, imboccando nell'incrocio accanto al villaggio turistico una strada per lo più in terra battuta, agevolmente carrabile. Abbiamo già incontrato una strada che porta a Montevecchio, nei pressi di Ingurtosu; ne troveremo un'altra anche un po' più avanti, lungo il tragitto. Anche se il nostro percorso, nelle prossime tappe, si manterrà lungo la costa, è doveroso segnalare fin da ora questa possibilità, poiché il compendio ex minerario è uno dei complessi museali più importanti della Sardegna ed è una tappa obbligatoria per chiunque visiti la costa di Arbus. Ci torneremo comunque, in seguito, alla fine del nostro lungo viaggio alla scoperta dei luoghi del Flag.

Affrontiamo gli ultimi km della litoranea nel tratto che costeggia il mare e incontriamo una serie di calette e spiagge, a volte sabbiose, altre rocciose, altre ancora, ritagliate su affascinanti piattaforme basse di arenaria fossile e arriviamo in una località chiamata "Campu ‘e Sali".

È un ampio pianoro che in estate appare completamente violaceo, tappezzato di una pianta grassa di origine sudafricana che ha colonizzato ampi tratti di questa costa, il "Carpobrotus Edulis", nota come "Fico degli Ottentotti", riconoscibile dai grandi fiori esotici di colore fuxia. Nonostante la vistosa bellezza, è ritenuta dannosa per l'ecosistema floreale autoctono e in tutto il mediterraneo sono in corso dei progetti volti ad eradicarla.

Il litorale di questa piccola insenatura è formato da una stretta spiaggia granulosa, separata dal mare da una bizzarra striscia di arenaria fossile, in cui si aprono numerosissime pozze d'acqua di mare che con la bassa marea e le alte temperature estive evaporano parzialmente, lasciandovi dentro una spessa crosta di sale. Da qui, il nome della località, che in italiano significa "campo di sale".

Contigua a Campu 'e Sali c'è Gutturu 'e Flumini, che in italiano significa "Gola del fiume". Altra insenatura, altro tipo di spiaggia, altro paesaggio, che in questa zona cambia di continuo.

E' una baia ampia, molto suggestiva, dalla sabbia quasi impalpabile e dorata, a cui si accede principalmente da una scalinata che scende lungo il costone di arenaria fossile che la separa dal livello stradale.

Lungo la strada e sulla collina è sorto un villaggio di seconde case, il primo insediamento turistico della costa di Arbus. Cresciuto spontaneamente e ben lontano dagli standard patinati dei villaggi turistici frutto di un'attenta pianificazione architettonica risulta comunque molto gradevole, anche perché, essendo frequentato prevalentemente da un turismo autoctono e stabile, ha sviluppato una sua forte identità anche dal punto di vista sociale.

Questa è una caratteristica comune a tutti i villaggi turistici sorti per iniziativa locale sulla costa di Arbus, a partire dagli anni '60. La loro attrattività, per il viaggiatore, è data soprattutto dalla possibilità di fare un turismo esperienziale ad alto impatto emotivo sul piano delle relazioni umane. In queste località, infatti, i frequentatori abituali provengono per lo più dai paesi vicini: ci si conosce un po' tutti, da generazioni e sebbene siano villaggi di seconde case, stabilmente abitati solo nel periodo estivo, rappresentano una sorta di duplicato delle comunità del circondario, traslate sulla costa. Non ci sono locali di ritrovo alla moda e la movida è fatta di riunioni spontanee, di passeggiate, di chitarre sulla spiaggia, di pomeriggi a giocare a carte, di grandi pranzi tra amici e vicini.

Per chi ama sperimentare il tempo lento e semplice, entrare in contatto con la gente del posto, sentirsi un amico ospite anziché un "turista", questi villaggi sono un luogo dove fare nuove amicizie, ad ogni età, è un'esperienza piuttosto facile da realizzare e molto apprezzata dai locali, che conservano con il turista un approccio ancora piuttosto rilassato ed accogliente.

Lasciando Gutturu 'e Flumini, la SP4 si addentra nelle colline dell'entroterra, fino ad un bivio, che a sinistra porta verso gli altri villaggi della costa e a destra verso Montevecchio, lungo la SP65 che poi consente di raggiungere agevolmente anche Arbus e Guspini.

Noi svoltiamo a sinistra, proseguendo verso la costa.

In questa zona si concentrano molte aziende agrozootecniche e micro-caseifici che producono degli ottimi formaggi ovini e caprini. Il più noto è il Caseificio Funtanazza, che ha ripreso in chiave moderna una tradizione familiare che dura da 150 anni, specializzato nella produzione e commercializzazione di prodotti caseari ricavati dal latte della pregiata "pecora nera di Arbus".

Dopo aver svoltato, troviamo ancora un bivio che conduce, a sinistra, verso la località di Funtanazza e a destra verso gli altri villaggi della costa, fino a Sant'Antonio di Santadi.

La strada che porta a Funtanazza è privata; fu costruita, negli anni '60 dalla società Mineraria Montevecchio e oggi appartiene alla società Riva di Scivu.

Le strade di accesso alle strutture di proprietà della miniera si riconoscono facilmente, perché sono tutte alberate, piantumate con eucalipti o pini. Ci si immerge, infatti, in una fitta pineta e in breve tempo si raggiunge una spiaggia ampia, lunga, dalla sabbia chiara e finissima. Il mare è trasparente, uno dei più belli della costa di Arbus e il fondale è basso e sabbioso, particolarmente adatto ai bambini. Infatti qui, negli anni '50, sorse uno dei gioielli che fu l'orgoglio della società mineraria: la colonia marina "Francesco Sartori", destinata ai figli dei dipendenti delle miniere di Ingurtosu e Montevecchio. Dopo alcuni decenni di gloria, oggi restano solo i ruderi vandalizzati di un'enorme struttura, che la sensibilità odierna definirebbe probabilmente un ecomostro ma che all'epoca dei suoi fasti fu una delle colonie aziendali all'avanguardia in Italia e in Europa. Era dotata di due piscine, di cui una olimpionica, pavimenti in marmo e rifiniture di extralusso, come all'avanguardia erano la gestione e l'organizzazione delle attività ludiche e didattiche.

Al centro di numerose polemiche che riguardano aspetti legati ai compromessi fra la volontà di un recupero alternativo da parte di società private e la ferma volontà di salvaguardia ambientale della zona, al momento, è oggetto di progetti che tardano a decollare e nell'attesa, nonostante la struttura sia pericolante e vietata all'accesso, è divenuta una meta popolarissima per gli amanti del softair, un'attività ludica nata negli anni'80 in Giappone, che simula battaglie militari utilizzando innocui laser e proiettili di gommapiuma.

Torniamo al bivio sulla SP4 e proseguiamo tra colline disabitate, selvagge e verdissime, tappezzate di lentischio, ginestra e altre essenze mediterranee e dopo una decina di km scorgiamo dall'alto una piccola baia che ospita un'antica borgata di mare, chiamata Porto Palma, Flumentorgiu o Tunaria. È doveroso precisarlo, perché potreste trovare questa località segnalata con nomi differenti, sulle mappe o nella cartellonistica stradale.

Il toponimo Tunaria non compare su nessun cartello segnaletico, tuttavia è il nome con cui si è imposta la località nella cultura popolare, distorcendo, nei secoli, il nome di "Tonnara".

Qui, infatti, nel XVII secolo, quando l'Isola era ancora sotto il dominio spagnolo, degli imprenditori genovesi vi impiantarono una tonnara ma la vocazione marinara del borgo è certamente molto più antica. Nelle colline immediatamente circostanti si trovano infatti numerose tracce di insediamenti e strutture di culto di epoca nuragica e punica e i fondali hanno restituito ancore e reperti di età romana.

La tonnara fu poi ceduta alla società "Porto Palma", da cui prese il nome una parte di Tunaria, mentre Flumentorgiu era il nome della località che si estendeva da un lato all'altro del promontorio a destra, che giunge fino alla bellissima Torre di Flumentorgiu, costruita dagli spagnoli verso la fine del XVI secolo per controllare le incursioni marittime dei pirati saraceni e che oggi è conosciuta come la "Torre dei Corsari", dal nome dell'omonimo villaggio balneare sorto nei primi anni '70.

Tra alterne vicende, la tonnara funzionò fino ai primi decenni del XX secolo, impiegando molti operai e operaie provenienti da Arbus e Guspini e ancora oggi sono visibili i resti degli antichi edifici in pietra destinati allo stoccaggio e alla lavorazione dei tonni. Purtroppo negli anni '50 alcune importanti strutture costruite sulla spiaggia sono crollate, sotto l'azione costante della salsedine, dei venti e del mare, come la ciminiera del forno di cottura che svettava dove oggi si trova il piccolo scivolo che consente alle imbarcazioni per la pesca sportiva di accedere al mare.

Nel corso degli anni, il Ministero dei Beni Culturali ha più volte dichiarato il sito di Tunaria di grande interesse, perché rappresenta un esempio urbanistico ben conservato comprendente abitazioni, locali per la lavorazione del pesce e magazzini, utile a far comprendere in quale modo fosse strutturato quel tipo di piccola industria.

Il borgo, che si estendeva longitudinalmente lungo tutti i circa trecento metri della piccola baia era idealmente diviso in due parti, separate da un arco ancora oggi visibile, che reca in cima lo stemma della tonnara: un leone rizzato con una croce fra le zampe anteriori, probabilmente legato a quello della famiglia che originariamente la possedeva.

Gli edifici principali sono stati riconvertiti, da privati, in abitazioni, conosciute come "i cameroni".

Nonostante questo recupero sia cominciato a partire dagli anni '60, quando ancora non c'era una sensibilità istituzionale che programmasse uno stile urbanistico coerente ed unitario, il borgo conserva un fascino tutto particolare, legato più all'atmosfera creata dalla comunità che la abita che all'estetica in sé. Non vi abita proprio una comunità stanziale, eccetto pochissime persone, nonostante la presenza di pescatori professionisti che qui ormeggiano i loro pescherecci nel piccolo porticciolo e che prevalentemente, ormai, risiedono ad Arbus. Per lo più il villaggio si popola stabilmente solo dai primi di giugno a fine settembre.

Sulla spiaggia colpisce e sorprende il visitatore casuale un vistoso rudere in blocchetti di cemento che fu la casa di una delle famiglie di pescatori più note fino agli anni '90, i "Sardu" di Arbus. Oggi non ci vive più nessuno, nessuno fa più la fila dalla famiglia "Sardu", di ritorno dal mare, per prenotare il pesce di giornata: è solo un parallelepipedo semidiroccato, che di recente è stato privato anche del tetto, in seguito ad una tromba d'aria. Non è bello da vedere ma è parte talmente integrante della memoria e del paesaggio locali che in moltissimi ci sono affezionati.

La parola d'ordine, qui, è "conservare" il paesaggio, a costo di non migliorarlo. Un atteggiamento condiviso e diffuso, comprensibile solo a chi qui, sardo o non sardo, è diventato parte della famiglia e vorrebbe ritrovarla sempre uguale a sé stessa, un po' come capita quando si conserva intatta la casa dei nonni, luogo del cuore e delle radici, anche quando i mobili sono fuori moda e un po'malandati. E in effetti Tunaria non fa niente per mostrarsi "bella" ma chi la ama la ama anche e soprattutto per questo.

Dietro i cameroni e gli edifici storici sono sorte, tra gli anni '60 e '70 molte case private realizzate secondo i più disparati gusti personali, talvolta lontani dal buon gusto o realizzate in economia ma, strano a dirsi, è proprio questa atmosfera rilassata, indolente, fuori dal tempo e dalla geografia che esercita il fascino più intenso sui pochi turisti che qui arrivano un po' per caso.

I cameroni, con il loro patio aperto, si affacciano affiancati l'uno all'altro come una specie di recinto sulla piazza principale, divisa in due micro "quartieri". È un semplice grande spiazzo in terra battuta, polveroso, parzialmente adibito a parcheggio, su cui si affacciano le verande aperte di queste antiche case. Non c'è quasi soluzione di continuità fra lo spazio privato e quello pubblico dei cameroni, ma anche di molte delle case più recenti e in qualche modo questa è una nota caratteristica che qui nessuno ha mai cercato di cambiare, recintando o nascondendo la propria quotidianità alla vista altrui.

Perché Tunaria è anzitutto una grande famiglia, allargata e aperta. Una comunità in cui le case, che si è smesso di costruire fin dai primi anni '70, sono sempre le stesse, tramandate dai nonni ai nipoti e intere generazioni, qui, vi hanno costruito la propria rete di relazioni più significative e stabili.

I turisti che giungono a Tunaria diventano spesso "tunariesi" in brevissimo tempo.

Tutti si conoscono, i bambini godono di una libertà impensabile nella normale quotidianità, sorvegliati da tutti, come poteva accadere in un piccolo villaggio di cento anni fa.

A Tunaria si cammina spesso scalzi, non ci si preoccupa di sfoggiare il telo da mare più alla moda e perfino i pochi venditori ambulanti, senegalesi e indiani, sono sempre gli stessi da molti decenni e parte integrante della comunità. Qui gli ombrelloni, da generazioni, si piantano su precise zone della spiaggia, quasi tramandando negli anni gli spazi di relax di interi gruppi familiari o di amici. Così, passeggiando, anno dopo anno, sai che sulla sinistra, certamente, incontrerai Tizio, al centro Caio e a destra Sempronio ed è per questo motivo che in tanti, anche da altre regioni italiane, hanno scelto di comprare casa qui. Fra questi, anche alcuni insospettabili professionisti ed artisti "continentali", che avrebbero potuto permettersi località più blasonate dell'isola ma che tra queste stradine polverose hanno deciso di stabilirsi e di farsi adottare, nel più totale anonimato, per fare finta di tornare indietro nel tempo, per sentirsi liberi.

Contigua a Tunaria, dall'altra parte del promontorio, a pochi metri in linea d'aria e a circa tre km di strada, c'è Torre dei Corsari.

Nata tra la fine degli anni '60 e i primi anni '70, in origine era un piccolo e ordinato villaggio di case sparse, tutte costruite secondo uno stile architettonico mediterraneo – moresco rivisitato in chiave turistica. Elegante e tranquilla, era una delle mete preferite soprattutto dai turisti lombardi nella costa sud occidentale fino a quando, crescendo, è diventata un grosso borgo di villette e località di riferimento per le vacanze degli abitanti di tutta l'area del Linas e del basso oristanese. Torre dei Corsari è oggi la località principale, per il turismo balneare, della costa arburese e anche di quella oristanese, fino ad Arborea. Qui si concentrano tutti i principali servizi turistici, alberghi e strutture ricettive di vario tipo, negozi, bar e ristoranti e nel fine settimana, durante la stagione estiva, è la meta preferita dai giovani che soggiornano nella costa.

L'attrazione più spettacolare è la spiaggia, chiamata "lo spiaggione", un'immensa distesa di sabbia fine che, longitudinalmente, arriva senza soluzione di continuità fino a Pistis, un altro villaggio balneare, e che si sviluppa in larghezza in un ampio sistema dunale, con dune di sabbia meno alte rispetto a quelle di Piscinas ma comunque di notevole altezza. La sabbia di queste dune è più scura, vira al dorato e popolarmente sono conosciute come "le sabbie d'oro".

Su questa lunga spiaggia, un po' distante dal villaggio ma raggiungibile anche attraverso un servizio di bus navetta, si trovano un ottimo ristorante, il "Mates" e tre lidi attrezzati, con ombrelloni, sdraio, bar, ristoranti e servizi di noleggio di pedalò ma la maggior parte della spiaggia è comunque libera. Due lidi sono a Torre dei Corsari mentre un altro lido è a Pistis, raggiungibile via spiaggia o, in auto, proseguendo lungo la SP4 fino a Sant'Antonio di Santadi, da cui si prende una strada di accesso diretta, ben segnalata.

Provenendo da Guspini, è la spiaggia raggiungibile in minor tempo, meno di mezz'ora lo stesso che si impiega, più o meno, giungendo da Terralba o Arcidano.

Pistis è un villaggio di seconde case, nato e cresciuto spontaneamente, come Gutturu 'e Flumini e come la parte moderna di Tunaria. Come queste due località, anch'esso si differenzia dalla più blasonata vicina Torre dei Corsari per l'offerta turistica molto più spartana e ripropone le stesse atmosfere, date dalla prevalenza di una comunità stagionale in gran parte proveniente dai paesi limitrofi e per lo più abituale. Da segnalare, sulla spiaggia, quasi a ridosso dell'acqua del mare, la presenza di un rinomato ristorante, il "Front 'e mari", ricavato dal raffinato recupero di un rudere risalente agli anni '70, quando ancora era possibile costruire a breve distanza dal mare.

Ci avviamo, infine, al termine del nostro viaggio "on the road", rientrando sulla SP4 da Torre dei Corsari, in direzione Sant'Antonio di Santadi.

Il percorso fino ad ora fatto è pensato per chi si muove su un mezzo a motore o per ciclisti ben allenati. Tuttavia, i camminatori avventurosi possono percorrere la costa seguendo le tappe del "Cammino 100 torri", un itinerario che si snoda lungo tutto il perimetro costiero dell'isola, percorribile a piedi e per buona parte anche in mountain bike, che fa tappa ad ogni antica torre costiera di avvistamento sul mare e che comprende tutte le destinazioni visitate fino ad ora e anche quelle che raggiungeremo in seguito.

Pochi km dopo Torre dei Corsari, lungo la SP4 si apre sulla sinistra una stradina bianca, che passa quasi inosservata e che conduce ad un luogo magico, facilmente raggiungibile a piedi dalla spiaggia di Pistis e meno facilmente dalla strada di accesso, in quanto non segnalato. È un gigantesco ginepro secolare, conosciuto come "la casa del poeta" e segnato su Google maps come "l'albero del poeta".

Un ex minatore di Guspini, signor Efisio Sanna e la sua amica – compagna, la compaesana Orlanda, sono divenuti personaggi quasi leggendari, nella cultura locale, per aver dato vita, per decenni, fino alla morte, ad una delle storie più fiabesche, poetiche e romantiche che si possano immaginare. Saputo che uno degli alberi più antichi e maestosi che popolano quella collina su cui amavano passeggiare era minacciato dall'avidità di qualcuno che aveva deciso di tagliarlo per ricavarne del preziosissimo legname, decisero di custodirlo permanentemente, trasformando la sua immensa chioma che naturalmente, come molti ginepri, si piegava verso il suolo, in una capanna. Non immaginatevi un semplice spazio concavo fatto di rami e fronde che si piegano a caso. No.

Con incredibile tenacia, costanza e passione, i due folletti in forma umana seguirono ogni ramo, giorno dopo giorno, centimetro dopo centimetro, guidandolo nella sua lenta crescita fino a formare un'architettura naturale che sbalordiva chiunque la visitasse. Ciò che non poteva costruire l'albero, da sè, lo aggiunsero loro, intrecciando con un'abilità ed un gusto straordinario sottili steli di elicriso, fino a formare una sinuosa parete perimetrale esterna, che si fondeva con le fronde del ginepro e pareti divisorie interne, impreziosite da archi vegetali di accesso ai vari ambienti. Usarono l'abbondante elicriso circostante, avendo cura di non rovinare la radice delle piante, staccando solo parte degli steli per creare stanze e le pietre intorno, per lastricare il pavimento e costruire un piccolo forno a cupola.

In una delle stanze c'era sempre una riserva di acqua potabile mentre nel piccolo vano che si affacciava sul mare da una finestra di elicriso modellata a bifora, Efisio costruì una piccola cassetta in legno, dove lasciava sempre risme di fogli e penne per scrivere e un'altra cassetta dove, chi voleva, poteva lasciare ciò che scriveva, per donarlo all'albero o a chi avesse voluto leggere.

L'area intorno al ginepro fu recintata con uno steccato in canne, chiusa da un cancello, sempre in canne, che poteva essere aperto da chiunque ma che serviva a tenere lontano le capre, che avrebbero divorato le pareti in breve tempo.

Tziu Efis e tzia Landa, come tutti li chiamavano, vivevano a Guspini ma passavano lì buona parte del loro tempo. Scrivevano poesie in sardo e le appendevano allo steccato esterno.

Proteggevano la loro creatura senza possederla. Ne fecero un luogo di pace, poesia, silenzio e profumo aperto a chiunque. Centinaia di viandanti, moltissimi stranieri, passarono lì la notte, nel rifugio sulle dune, lasciando intatto ciò che avevano trovato. Migliaia e migliaia di poesie, pensieri, preghiere e desideri, negli anni, sono stati depositati in quella cassetta, dove chiunque andasse si fermava a leggere, per poi lasciare un pensiero, a sua volta.

Quando diedero vita a questo straordinario progetto di vita, Efisio e Orlanda, che non formarono mai una coppia secondo gli standard abituali e che mai convissero, pur amandosi come pochi, erano già avanti con gli anni ma per fortuna vissero molto a lungo da poter creare una leggenda.

Oggi l'albero c'è ancora e conserva le tracce del lavoro dei due poeti. Mani anonime e generose stanno cercando di ripristinare le profumate pareti, qualcuno porta scorte d'acqua per eventuali viaggiatori romantici e ogni tanto si trovano fogli e penne per scrivere ma la casa del poeta, con i suoi custodi viventi non esiste più. Resta un'eredità in lascito, che con ammirevole buona volontà alcuni volonterosi stanno restituendo alla comunità, e resta intatta l'atmosfera struggente, quasi palpabile, lasciata, strato dopo strato, dalle emozioni di quanti hanno lasciato lì un pezzo della loro anima, nel corso dei decenni.

Concludiamo questo lungo viaggio proseguendo verso Sant'Antonio di Santadi.

È un piccolo e strano villaggio di pescatori, un po' distante dal mare, che si estende attorno ad una piazza principale che non è altro che un ampio spiazzo in cui la SP4 si allarga, ospitando qualche servizio turistico, una chiesa, una bottega e, tutto l'anno, bancarelle improvvisate in cui i pescatori vendono, in colorate bacinelle, i mitili raccolti nella vicinissima Laguna di Marceddì.

Da non perdere assolutamente è una visita alla piccola bottega di formaggi di produzione propria del caseificio "Dedoni", dove si possono acquistare deliziosi formaggi ovini e caprini lavorati artigianalmente, oltre a salumi del territorio. Accanto alla bottega, sotto una spartana ed accogliente tettoia in canne, ci si può accomodare a gustare birre artigianali sarde e abbondantissimi taglieri di formaggi e salumi, accompagnati da pane carasau e sott'olio fatti dal proprietario, per gustare uno "smurzo".

tunaria 2

Sembra più Sudamerica che Sardegna, un'impressione sovente che si sperimenta, da qui in poi, in tutte le borgate di mare dell'oristanese, con cui questo villaggio confina, separato dalle acque salmastre degli stagni e della laguna e distante meno di due km da Marceddì.

Eppure nella sua apparente umiltà questa borgata stanziale di pescatori, principale frazione del comune di Arbus, ha una storia antica e di tutto rispetto. Esisteva prima che la stessa Arbus nascesse, intorno al 1300, come comunità che probabilmente si creò in seguito al progressivo abbandono, da parte degli abitanti, della vicina costa flagellata dalle incursioni saracene.

Intorno, sorgono diversi nuraghi e relativi resti di villaggi, a testimonianza del fatto che la pescosità della laguna e la fertilità del suolo hanno favorito da sempre la presenza umana stanziale nei dintorni. Il villaggio, probabilmente, si strutturò nell'attuale sito in epoca imperiale romana, come comunità di lavoratori e schiavi dipendenti da una villa romana, di cui si conservano le tracce, appartenuta a qualche possidente, abitante della vicina importante città di Neapolis, che oggi giace sepolta, in attesa di scavi, sulle sponde dello stagno di San Giovanni, contiguo alla laguna di Marceddì.

In questa piccola comunità, da circa 400 anni, dal primo sabato dopo il 13 giugno e fino al martedì successivo, si svolge una imponente e pittoresca festa religiosa dedicata a Sant'Antonio da Padova. Le origini del rito sono incerte e affondano le radici nella leggenda tramandata oralmente attraverso i secoli, secondo la quale, nel punto preciso in cui oggi sorge la chiesa, c'era una casupola diroccata che fu usata dagli abitanti del villaggio, tutti originari di Arbus, per deporre e custodire una piccola statua in legno di Sant'Antonio, trovata tra gli scogli della vicina costa e probabilmente smarrita da qualche nave spagnola, con l'intenzione di erigervi una cappella.

Gli abitanti elessero il santo portoghese a loro patrono e gli dedicarono il nome del villaggio, in un epoca in cui abitare lungo la costa, in quest'area della Sardegna, era rischiosissimo, per via delle continue efferate incursioni saracene e la ricerca della protezione di un santo aiutava a radunare la forza e il coraggio collettivi per resistere. La comunità locale era costretta periodicamente a rifugiarsi ad Arbus, e lo faceva portando sempre con se la statua del santo, che poi veniva riportata indietro al rientro, nel timore che potesse essere profanata dagli invasori musulmani.

La leggenda narra che fu infine deciso di collocare permanentemente il simulacro nella chiesa patronale di Arbus, lasciando nel villaggio una copia della statua ma che più volte, la statua originaria, fosse misteriosamente ricomparsa nella cappella del villaggio.

Da questa vicenda nacque la tradizione di portare in pellegrinaggio il simulacro, una volta all'anno, da Arbus a Sant'Antonio di Santadi, rito poi codificato in una festa religiosa caratterizzata da una processione rituale, che da oltre quattro secoli dà vita alla processione più lunga della Sardegna: ben 47 km, pari alla distanza che separa Arbus dal borgo di mare e che ogni anno viene percorsa da una gran folla di devoti, che a piedi e a bordo di pittoresche carovane addobbate e trainate da coppie di buoi, (oggi anche da trattori) le caratteristiche "traccas", accompagnano il santo da Arbus al borgo di mare e da qui, dopo alcuni giorni di grandi festeggiamenti religiosi e civili, lo riaccompagnano ad Arbus.

Termina qui la prima parte del nostro viaggio, tra storie di minatori e di pescatori che vivono sui monti, di spiagge sconfinate e di dune altissime.

Nella prossima tappa attraverseremo un ponte ed entreremo in un mondo fatto di lagune, di pescatori, di spiagge di quarzo e di antiche città di mare la cui fama solcava il Mediterraneo: l'Oristanese.