Dalla SS 126 Sud Occidentale Sarda imbocchiamo la SP 66, e attraversiamo una vasta pianura ricca di pascoli, in cui è facile incontrare greggi di una razza ovina peculiare della zona: la pecora nera di Arbus, una delle diciassette razze autoctone italiane allevata per le sue carni, il suo latte e i pregiati materiali derivati dalla lavorazione del corno e della lana, tutelati dal marchio collettivo "Pecora Nera di Arbus", riconosciuto dal Ministero dello Sviluppo Economico.
Le carni e i formaggi che vi si ricavano sono stati inseriti anche nella lista dei Prodotti Agroalimentari Tradizionali dal Ministero delle Politiche Agricole. I prodotti caseari sono lavorati artigianalmente, secondo antica tradizione locale, nei piccoli caseifici della zona, spesso accreditati come agriturismo e fattorie didattiche, in cui ti puoi fermare per una degustazione o per assistere ai processi di trasformazione dei vari prodotti, unendo il piacere del viaggio alla scoperta di sapori e saperi.
Dalla lana si ricava un orbace resistente che non necessita di tintura e che viene usata anche per realizzare oggetti di moda e design o per la coibentazione degli edifici in bioedilizia. La produzione dell'orbace, un tempo fiorente, era stata praticamente abbandonata e solo negli ultimi quindici anni, la lana è diventata la protagonista di una nuova economia circolare, attraverso l'uso innovativo ed alternativo di un materiale che non serviva più per gli usi tradizionali.
Tra i molti imprenditori che con coraggio hanno scommesso nel rilancio delle produzioni artigianali, reinventandole ed innovandole, ci sono anche molte donne. Fra le tante storie, citiamo quella di Monica Saba, perché è stata una pioniera dell'innovazione come rilancio della tradizione nel territorio e che ha poi saputo ispirare molti altri, tessendo una rete di relazioni e collaborazioni che hanno contribuito alla diffusione della green economy ben prima che divenisse una buona pratica, con il sostegno delle istituzioni. Qui è possibile leggere una sua bella intervista.
Dalle corna della pecora nera si ricavano invece i manici dei tipici coltelli artigianali della zona, riconosciuti dal marchio DOC: l'"arburesa", dalla lama panciuta e appuntita e la "guspinesa", la variante con la punta mozzata, che potevano portare appresso gli operai delle miniere della zona. Nel 1908, infatti, un decreto di Giolitti proibì in tutta Italia di girare recando con sé dei coltelli, ma era un' usanza troppo radicata nella tradizione agropastorale della Sardegna ed era difficile farla rispettare. Così, per aggirare la norma e nel contempo arginare il rischio che gli operai delle miniere della zona potessero portare con sè una potenziale arma pericolosa, si consentì l'uso del coltello, purché questo avesse la punta mozzata.
Fu così che si affermò questa particolare tipologia, a Guspini e Arbus, da secoli centro nevralgico per la produzione del tipico coltello sardo, "s'arresoja", prodotto oltre che nei due paesi anche a Santulussurgiu e a Pattada, nelle varianti locali.
La vista di queste insolite greggi nere, dove a spiccare è talvolta un'unica pecora bianca, sembra quasi un segnale che prepara i sensi all'ingresso in un mondo insolito, in cui il paesaggio e la storia si discostano dalle forme più comuni usate nell'immaginario collettivo per rappresentare la Sardegna e che comincia a svelarsi da ora in poi.
Dopo circa un km dal bivio entriamo nella "Valle de is Animas" (valle delle anime), che si spinge fino alla spiaggia di Piscinas. Ora la collina si fa più ripida, la strada si srotola tutta in discesa e l'orizzonte è dominato da un mare che qui ricorda moltissimo l'oceano. Le docili pecore nere lasciano pian piano la scena alla capra sarda primitiva, una razza autoctona dell'Isola allevata soprattutto nell'arburese, facile da incontrare mentre salta e si arrampica tra rocce e cespugli alla ricerca di erbe e foglie prelibate, che danno al suo latte un aroma inconfondibile, da cui si ricavano formaggi caprini prelibatissimi.
C'è una cosa però che colpirà presto la tua attenzione, oltre agli elementi naturali: le tracce umane dell'intenso vivere che un tempo caratterizzò questa vallata, oggi così silenziosa e poco abitata
I ruderi delle abitazioni e dei fabbricati ad uso produttivo, appartenuti alla miniera di Ingurtosu e Gennamari, diventano da ora in poi la traccia antropica distintiva del paesaggio, immersi in una natura così selvaggia e tenace che si fatica ad immaginare che questo scenario, tra metà del XIX secolo e fino al volgere degli anni '70 del secolo scorso, sia stato il teatro di una epopea industriale tra le più precoci e floride in Italia. In questa vallata, come accadde in America durante la corsa all'oro, giunsero imprenditori stranieri, scienziati naturalisti da tutta Europa, esploratori e soprattutto grandi masse di lavoratori dai paesi circostanti ma anche da zone remote dell'Isola, che lasciarono le campagne per diventare operai.
È normale, percorrendo luoghi di raro pregio ambientale e di intensa bellezza di forme, colori, profumi e silenzi, sentire i sensi completamente rapiti dal paesaggio naturale. Ci si sente piccoli, la dimensione umana del proprio sé si ridimensiona in favore di quella animale, facendoci sentire figli e non padroni di Madre Natura.
In questi momenti la storia scompare, il tempo resta sospeso ed indefinito in un "non tempo" intimo che ferma la mente in un presente che sembra un abbraccio caldo e confortante.
Sono le emozioni che sperimenta chiunque attraversi questa valle fino al mare e sembra quasi indelicato interromperle riportando l'attenzione sulla storia e sull'uomo ma dietro il verde, il blu, il dorato e la luce di questo paesaggio ci sono troppe storie, ormai silenziose, che bisogna raccontare, perché sono loro a rendere i luoghi unici e irripetibili per un viaggiatore.
Incontriamo un po' ovunque piccoli edifici diroccati, a pianta rettangolare, un tempo dimora per gli operai della miniera e le loro famiglie. Diverse migliaia di persone lavoravano e vivevano nelle varie aree del vasto compendio minerario, da Gennamari a Piscinas, tra le pieghe delle colline circostanti e il mare. Ogni tanto, i resti di qualche villa con vista sul mare, anch'esse ormai ridotte a scheletri sventrati, in cui soggiornavano i più importanti dirigenti e tecnici della miniera, passata nelle mani di molti proprietari, sempre stranieri, che dirigevano il lavoro e in parte anche le vite di migliaia di uomini, donne e un tempo anche bambini, dei paesi circostanti.
Il primo villaggio che attraversiamo si chiama Pitzinurri, dove ora sono presenti alcuni B&b, un bar, un ristorante e altri servizi turistici ricavati dal recupero di alcuni dei complessi abitativi destinati agli operai. Il recupero ad uso turistico di questi caseggiati nel piazzale principale di Pitzinurri è opera del coraggio dei giovani imprenditori del ristorante "la Casa del Minatore", che oltre ad offrire una prelibata cucina di terra e di mare con prodotti a km 0, conferenze e laboratori del gusto, in collaborazione con i produttori diretti del territorio, propone anche escursioni guidate alle miniere della zona e al museo multimediale minerario di Ingurtosu.
Nascoste alla vista dalla vegetazione, su due alture poste a sinistra e a destra della strada, svettano Villa Idina e Villa Wright, costruite nei primi anni del 1900, rispettivamente dimora del direttore e del vicedirettore della miniera durante il lungo periodo della gestione inglese.
La prima, uno splendido edificio in stile "Liberty", appartenne al nobile gallese Lord Thomas Alnutt, Conte di Brassey e Visconte di Hyte, proprietario e direttore della miniera a partire dal 1890, che dedicò il nome della dimora a sua moglie, Lady Idina Nevill Maria.
Vale la pena svoltare nel primo vialetto sulla sinistra, dopo il "ristorante il minatore" e fare una passeggiata a piedi fino alla villa. Sia perché ci si riempie gli occhi di un panorama a perdita d'occhio, sia perchè qui sono state scritte molte delle storie di questa valle.
Questo video restituisce con le immagini un'idea dell'atmosfera che si respira in questa dimensione sospesa tra presente, passato e assenza di tempo. È stato girato con il drone da Marco Saba, proprietario dell'Agriturismo La Quercia, una delle tante eccellenze del gusto e dell'ospitalità disseminate nelle colline circostanti.
Lord Brassey, come viene comunemente chiamato, alla fin dei conti è solo uno dei tanti nomi illustri che per oltre un secolo si avvicendarono nel possesso e nella gestione moderna delle miniere di Ingurtosu e Gennamari: i primi furono due imprenditori liguri, Marco e Luigi Calvo, che fondarono la prima società mineraria nel 1853 per poi venderla, subito dopo, ad una società francese che affidò l'intera gestione a tecnici tedeschi. Questa, infine, vendette le concessioni ad una società inglese, con l'ingresso in scena del nobile gallese.
Ogni cambio di proprietà e di gestione registrò progressi produttivi e scientifici di portata tale da trasformare la selvaggia vallata de Is Animas in una delle realtà industriali più precoci, innovative ed importanti d'Italia e d'Europa, nel settore estrattivo, agli albori dell'epoca contemporanea, cominciata quando il Regno d'Italia ancora non esisteva.
Lord Brassey, però, non restò solo un nome illustre. Lui era uno di quei personaggi capaci di imprimere un segno permanente non soltanto nella storia materiale di un luogo ma anche nella sua più profonda identità sociale e nella vita quotidiana della gente. Investì moltissimo denaro nell'ampliamento e nella modernizzazione delle infrastrutture senza però mai perdere di vista l'attenzione verso quel fattore produttivo che faceva funzionare una macchina perfetta: gli operai e le operaie e le loro famiglie, impegnati in uno dei lavori più logoranti e spaventosi che ci siano: quello in miniera.
Nello spazio di pochissimi anni la comunità locale passò da un'economia prevalentemente rurale ad un'economia industriale, dal lavoro autonomo, libero ed individuale al lavoro dipendente, salariato ma ubbidiente. La rigida disciplina collettiva prese il posto dell'anarchia individuale e i pastori e contadini della zona divennero operai, abitando per oltre un secolo valli disabitate dai tempi delle prime invasioni saracene. Costruirono una nuova comunità, sparsa su sette borghi distribuiti lungo tutta la valle Is Animas: Casargiu, Bau, Gennamari, Pitzinurri, Ingurtosu, Pireddu e Naracauli, tutti collegati tra loro da strade. E non si sentirono mai abitanti di diversi villaggi ma parte della stessa grande famiglia degli operai della miniera.
A questa nuova comunità Lord Brassey seppe guardare con un'umanità il cui ricordo è ancora vivo nella memoria collettiva locale; un fatto di per sé straordinario, poiché coinvolse gente che non fu mai servile nè indulgente con i padroni della miniera.
"Loro" e i "padroni" appartenevano a mondi diversi non solo per posizione sociale ed economica ma anche per origine geografica e culturale. E dall'abisso che separava quel "noi" da "loro" nacque la classe operaia locale, a cui apparteneva la stragrande maggioranza della popolazione lavorativa di Guspini e Arbus e che diede vita ai primi e più clamorosi scioperi di lavoratori in Italia.
Lord Brassey, però, provò a colmare quell'abisso.
Era solito pranzare con gli operai, quando visitava i siti di estrazione e ascoltava i loro problemi. Parlava molto bene l'italiano e imparò anche un po' di lingua sarda, tanto che spesso ne usava qualche tipica espressione quando si rivolgeva alle maestranze locali. Era affascinato dalla Sardegna, che girò in lungo e in largo e dai Sardi, tra i quali aveva molte amicizie anche al di fuori dell'ambiente di lavoro. In una sua lettera riportata all'interno del saggio di Robert Tennant "Sardinia and its resources", del 1883, scritta prima che diventasse proprietario della miniera, si mostrava colpito dalla dignità con cui gli uomini e le donne conosciuti durante i suoi viaggi nell'Isola affrontavano le loro difficili esistenze e conservò questa rispettosa ammirazione quando si trovò a gestire il duro lavoro dei minatori, investendo moltissimo in opere per migliorare la loro vita quotidiana anche al di là del lavoro.
Nei primi anni del '900, oltre a molti alloggi per operai, tutti dotati di servizi e di un orticello per ciascun nucleo abitativo, fece costruire nel villaggio principale di Ingurtosu la chiesa, un moderno ospedale, la scuola elementare e altri edifici e strutture destinate ai bisogni sociali primari della popolazione. Questo, in un' epoca in cui il valore della vita di un operaio, fosse anche stato un bambino, normalmente valeva poco più di quella di un animale da produzione.
Lasciamo Pitzinurri e dopo meno di un km giungiamo ad Ingurtosu, il villaggio principale. Incontriamo subito un edificio imponente, arroccato su un dirupo: è la Chiesa di Santa Barbara, patrona dei minatori, un edificio in granito giallo a cui si accede da una gradinata ripida. Fu costruita per volere di Lord Brassey, nonostante fosse di fede protestante, e potè contare sull'importante contributo diretto di Papa Pio X, che donò ventimila lire per la sua realizzazione, terminata nel 1914.
Ai piedi della gradinata della chiesa, in posizione dominante sul villaggio, svetta una stele commemorativa dedicata al direttore gallese, che morì improvvisamente, senza lasciare eredi, a soli 56 anni, investito da una vettura a Westminster. Con lui si estinse il casato dei Brassey ma, soprattutto, terminò quel periodo illuminato in cui, oltre al fatturato della miniera, crebbe il valore umano della vita degli operai, e furono loro, i minatori di Ingurtosu e Gennamari a volere quel monumento, quotandosi per la sua realizzazione.
Accanto alla stele un piccolo cippo segnala il Cammino di Santa Barbara, un percorso ad anello lungo circa 500 km, suddivisi in 30 tappe, che si snoda tra le aree ex minerarie del Linas e del Sulcis. E' l'unico cammino, in Sardegna, ad essere riconosciuto fra i "Cammini d'Italia" dal Ministero del Beni Culturali e nonostante sia di recente istituzione la sua popolarità è in crescita esponenziale. Strutturato sull'esempio del Cammino di Santiago, è servito da strutture in cui si può dormire, chiamate "posadas", che in sardo significa "locanda". Anche qui, per chi lo desidera, è possibile ottenere il passaporto del pellegrino e timbrare le credenziali ad ogni tappa, rivolgendosi alla Fondazione Cammino di Santa Barbara.
Proseguendo la discesa verso il villaggio, dopo una stretta curva a tornante, ci si imbatte all'improvviso in uno strano edificio che si estende da una parte all'altra della carreggiata e che si lascia attraversare dalla strada grazie ad un varco sormontato da un arco. Era il palazzo della direzione, il cuore amministrativo della miniera, una bellissima palazzina a strapiombo sulla collina, realizzata con il materiale più rappresentativo dell'architettura locale: grossi blocchi di granito, squadrati e lasciati a vista, usati però per realizzare un palazzo che richiama chiaramente l'antica tradizione costruttiva del nord Europa.
Il progetto fu ispirato dal tedesco Johan Georg Bornemann, direttore della miniera negli ultimi decenni del XIX secolo, quando questa apparteneva ad una compagnia francese. Originario di Eisenach, in Turingia, volle costruire la Direzione secondo un'architettura che ricordasse il castello medievale di Wartburg, nei pressi della sua città natale. Bornemann era un imprenditore minerario ma, prima ancora, un geologo e paleontologo, e studiò i fossili, le rocce e le piante dell'Isola in modo sistematico, tanto che le sue monografie relative ai fossili del Cambriano sardo sono un classico della letteratura scientifica sulla paleontologia della Sardegna.
Sorpassando l'arco, si ha la sensazione di varcare un portale che immette in un mondo fiabesco. Da qui in poi, infatti, tutto il paesaggio assume forme inattese e bizzarre, a causa di edifici ed impianti minerari che danno la sensazione di essere capitato nel bel mezzo di un enorme set cinematografico in cui le scenografie di diversi film sono state mischiate fra loro. E infatti qui, nel 1997, furono girate moltissime scene del film "Il figlio di Bakunin", diretto dal regista sardo Gianfranco Cabiddu, sulla base dell'omonimo romanzo del noto scrittore Sergio Atzeni.
Il villaggio di Ingurtosu, si svela piano piano, tornante dopo tornante, prima abbarbicato ripidissimo nel costone della montagna, dove si alternano le lunghe e squadrate casette degli operai, l’ex ospedale, costruito per volere di Brassey nel 1902 e altri imponenti edifici che ospitarono servizi pubblici. Alcuni sono spettrali e in totale stato di abbandono, altri restaurati con cura e riabitati ma nell'insieme del suo disordine architettonico il centro del villaggio appare comunque bellissimo.
Poi l'abitato si diluisce e scivola, sparso, diroccato, interminabile, tra le colline circostanti e la strada principale, dove si trova un altro importante cantiere di estrazione, chiamato "Pozzo Gal", dal nome di Paul Gal, uno dei funzionari della miniera negli anni venti. Le gallerie dell'impianto si estendono per circa 200 metri sottoterra e dalla strada sono perfettamente visibili le strutture che servivano a caricare e trasportare il materiale estratto per essere lavorato altrove.
Oggi è sede di una esposizione museale multimediale permanente, che consente di vivere un'esperienza immersiva nella storia e nella vita quotidiana delle miniere e i gestori del sito offrono anche servizi di guida turistica ed escursionistica nella zona.
La strada prosegue in un'alternanza sempre uguale di vegetazione lussureggiante e casette operaie in rovina e questo sfondo rassicurante, con la natura che sembra riuscire benissimo a riprendersi ciò che l'uomo ha ormai abbandonato, sembra dover continuare così fino al mare di Piscinas. All'improvviso, invece, il set bucolico termina in un enorme spiazzo pianeggiante, ricoperto di detriti luccicanti, resti della lavorazione dei minerali, e si entra dentro un altro film.
Siamo a Naracauli.
La sensazione di trovarsi in un punto in cui termina qualcosa e ne comincia un'altra è nettissima. Le casette e le villette in pietra, diroccate, sono più o meno sempre le stesse, uguali a quelle viste fino ad ora ma immerse in questo pietrisco fine, iridescente, intervallate da edifici in cemento funzionali all'attività industriale, anch'essi in rovina, non danno più l'idea di trovarsi in mezzo ad antichi villaggi di montagna abbandonati ma a qualcosa a metà strada tra un villaggio del "Far West" abbandonato e uno scenario di guerra, di quelli che mostrano i media per raccontarci le cronache di qualche bombardamento che in poco tempo cancella la vita di intere città.
È la prima ferita grave che incontriamo nel paesaggio, la più visibile e si nota con stridore perchè fa da contrasto ad un ambiente naturale incantato, impegnato a ricoprire tutto di verde per rimarginare i segni di una storia di ricchezza economica, gloriosa ed insostenibile, per l'ambiente e la salute umana. Una storia che terminerà nel 1968, con la chiusura definitiva della miniera di Ingurtosu e Gennamari, cui seguirà, non molto più tardi, il declino e la chiusura progressiva di tutte le altre miniere circostanti.
Domina lo spiazzo un maestoso edificio diroccato, la Laveria, costruita su disposizione di Brassey tra il 1899 e il 1900. Inizialmente consisteva in un impianto di trattamento meccanico dei minerali blendosi, dai quali si estrae lo zinco, a cui si aggiunsero negli anni seguenti altri impianti destinati al ripasso delle discariche e al trattamento di altri minerali. Seguirono altre trasformazioni, nei decenni successivi, finché venne chiusa verso la fine degli anni ’60.
Fu una delle laverie più all'avanguardia dell'epoca, in Sardegna e colpisce lo stile architettonico che fu riservato ad un impianto industriale, costruito secondo criteri di eccellenza non solo funzionale ma anche estetica.
Dietro e intorno ad essa, svettano immensi mucchi argentei di scarti di lavorazione dei minerali, accumulati negli anni, che danno l'impressione di un pezzo di Luna caduto sulla Terra. Stupore e malinconia si affacciano, insieme, nell'animo di chiunque si fermi qui ad ammirare il contrasto di bellezza e dolore.
Dopo Naracauli la strada prosegue sulla sede della vecchia ferrovia mineraria, su cui si muoveva, avanti e indietro, un trenino fatto di piccoli vagoni che trasportavano il minerale trattato dalla laveria fino alla spiaggia di Piscinas., dove si trovavano i magazzini di stoccaggio e un molo per le imbarcazioni che trasportavano il materiale anche via mare.
I bambini, figli degli operai, usavano arrampicarsi sui vagoni per andare ad accamparsi in spiaggia, durante le vacanze estive, compiendo un viaggio avventuroso in uno scenario incredibile che racconteremo nella prossima tappa dell'itinerario.
Chiudiamo con i versi di una canzone dei Nomadi, "Naracauli", traccia contenuta nell'album "Naracauli e altre storie", del 1978, che restituisce in poesia la sintesi di questa tappa di viaggio:
Poche luci nelle poche case, quando si fa sera.
La miniera no, non lavora più e la sabbia brucia il mare, e come è blu il tuo mare e come è stanca la voce. Una rabbia brucia i boschi e poi si ubriaca all'osteria. Canti antichi e sacri tirano la barca in strada di sera.
Oh! nelle sere d'estate piangono i gatti e le stelle, dorme il gregge ma il pastore no. No, lui non riesce a capire che gli han portato via il lavoro sai e adesso la fame sui monti. Lui, padrone dei monti, lui, prigioniero dei monti.
Ma una nave è approdata stanotte, sì per non farsi vedere e i negozi sì son pieni già di cose che non userai mai, mai. Mai e poi mai non avresti pensato che così t'hanno fregato.